Il Progetto di società di François Mitterand (1974)

Progetto di società – François Mitterand – 1974

Per il socialismo

Il mondo s’interroga. Il capitalismo aveva promesso un’era indefinita di progresso. L’inquietudine, invece, è divenuta il marchio della nostra epoca. La rottura degli equilibri naturali, l’accumulazione dei mezzi di distruzione, il sottosviluppo pongono all’umanità il problema della propria sopravvivenza. L’aspirazione a un nuovo ordine di cose cresce fra tutti i popoli della terra. Un vecchio mondo si disgrega, il nuovo cerca di nascere. Da dove partirà il nuovo corso? Tentativi ve ne sono già stati ma, sia perché minacciano la sottomissione totale dell’uomo a uno Stato onnipotente, sia perché non hanno saputo proporre un’alternativa adeguata di fronte alle deficienze economiche e sociali della crescita capitalistica, essi non costituiscono oggi un punto di riferimento accettabile per la costruzione del socialismo. Altre esperienze vengono tentate nel Terzo Mondo. Esse richiedono la nostra attenzione e la nostra solidarietà. Ma è innanzitutto laddove il capitalismo ha gettato le basi del suo potere, che esso deve essere messo in discussione. Non esistono altre soluzioni che nell’audacia di una nuova esperienza. Grazie alle buone carte di cui oggi dispone, la Francia può rispondere all’aspettativa. Godendo ancora per qualche tempo di un margine di manovra nel gioco fissato dalle potenze dominanti, essa deve giocare queste carte prima che sia troppo tardi. La storia recente della Francia ha manifestato in molte forme la volontà del suo popolo di avviarsi su questo nuovo cammino. II maggio 1968 fu l’esplosione spontanea di forze a lungo represse. Il maggio 1974 fu la dimostrazione che l’unione politica delle forze popolari è pronta ad assumere la responsabilità che le compete. Il presente è fatto di difficoltà e di inquietudini quotidiane: il bilancio familiare è messo in crisi dal continuo aumento dei prezzi; il sistema nervoso è logorato dalla minaccia della disoccupazione, dalle dure condizioni di lavoro, dalla lunghezza dei trasporti, dalla scomodità degli alloggi; la gioia di vivere subisce l’assalto della pubblicità e dei venditori di benessere. Contro questa realtà quotidiana, la speranza si esprime attraverso lotte economiche, sociali, culturali, elettorali. I socialisti non hanno inventato la lotta di classe: essa è un fatto e, per non negare la realtà, bisogna riconoscere che questo motore di cambiamento sociale non ha finito di svolgere il suo ruolo, anche se le sue frontiere si evolvono. Solo la lotta di classe consente il proprio superamento e dal momento in cui la coscienza degli uomini permette di imporre un corso alla storia in luogo di subirla. In ciò sta tutto il senso del socialismo. Questo documento vuole indicare il senso di un progetto di società che risponda all’attesa di un popolo e di un mondo inquieti. Questo progetto non è tutto: esso ha la modestia di chi si appoggia alle acquisizioni del passato, e l’ambizione di chi guarda all’avvenire, cosciente della speranza che preme. Esso evidenzia la necessità di una grande forza politica che dia vigore e concretezza a ciò che propone.

Una società senza vie d’uscita

Maggio 1974: tredici milioni di uomini e donne francesi dimostrano che l’unione delle forze politiche e sindacali della sinistra costituisce la chiave per ogni trasformazione della società. La vittoria sfugge di poco alla coalizione popolare: oggi essa resta alla sua portata. E noi intendiamo dimostrarlo. Un periodo storico sta per concludersi. Per mezzo di una evoluzione eccezionale esso ha consentito un importante miglioramento nel livello di vita dei popoli; ma a quale prezzo!

II prezzo della crescita In Francia

La crescita del capitale ha avuto in Francia conseguenze notevoli: essa ha portato cambiamenti importanti nelle condizioni del lavoro salariato e ha provocato una grande concentrazione economica e finanziaria e uno sconvolgimento dell’insieme delle condizioni della vita economica e sociale. Nelle medie e piccole industrie, le condizioni di lavoro erano, e spesso permangono tuttora, molto dure, e la repressione antisindacale è severa. Il passaggio a un’economia di grandi unità di produzione può dare l’impressione di un miglioramento di tali condizioni: e, effettivamente, la maggiore produttività realizzata grazie al progresso tecnico e la crescente efficacia della pressione sindacale hanno permesso ai lavoratori di migliorare sensibilmente il loro livello di vita. Ma le conseguenze di questo progresso tecnico, utilizzato ai soli fini del profitto, sono pesanti per i lavoratori; a causa dell’aumento dei ritmi di lavoro, della parcellizzazione delle mansioni, il lavoro è infatti divenuto più penoso. Ciò non avviene per caso: è noto infatti che il taylorismo e tutta l’organizzazione del lavoro che ne deriva non si basano soltanto sulle inevitabili conseguenze della tecnica, ma anche sulla volontà di impedire i rapporti diretti tra i lavoratori. Questa evoluzione non si riferisce soltanto al lavoro del settore industriale. Essa concerne una parte crescente dei servizi amministrativi, commerciali, bancari, e persino l’agricoltura. Vera già da molto tempo per gli operai, questa affermazione lo è ora per gli impiegati e lo diviene poco a poco anche per i quadri dirigenti: ripetitivo, privo di interesse, il lavoro non fornisce occasioni di arricchimento o di sviluppo personale. La produzione si è dissociata dalla creazione. Un’altra conseguenza della concentrazione capitalistica è lo sconvolgimento dell’insieme della vita economica e sociale: regioni intere si spopolano, villaggi spariscono, piccole città sono in pericolo. Al loro posto, una concentrazione urbana selvaggia e un habitat caro e sovrappopolato, con tutto ciò che ne deriva: disagi, delinquenza, promiscuità, trasporti lunghi e faticosi, vita quotidiana priva di attrattive. Così pure la libertà di opinione viene a poco a poco sgretolata, soffocata. I grandi quotidiani regionali estendono il loro monopolio su intere regioni e la stampa locale muore un po’ ogni giorno. Che si tratti della stampa, della radio o della televisione, rari sono oggi i mezzi d’informazione in grado di resistere al controllo del denaro o alla pressione dello Stato. In termini generali, questa concentrazione è la base per un condizionamento delle aspirazioni individuali e si nasconde dietro il miraggio di una “società dei consumi” in cui tutto sarebbe alla portata di tutti…

Nel mondo

A livello internazionale, il prezzo della crescita dell’Occidente è ancora più pesante. La concentrazione del capitale si esercita attraverso lo sviluppo di imprese multinazionali la cui potenza finanziaria è superiore a quella di numerosi Stati. Inoltre, la fortuna del capitalismo occidentale si è costruita sulla base di uno sfruttamento brutale nei confronti di altri paesi. è solo per una mistificazione del linguaggio che i rapporti tra il Terzo Mondo e i paesi capitalistici industrializzati sono definiti di “libero scambio”. In realtà si tratta di scambio ineguale, di imperialismo, di neocolonialismo. Grazie ai movimenti e alle rivolte popolari, numerosi paesi colonizzati hanno raggiunto l’indipendenza. Ma in molti casi il potere è stato preso da regimi locali che, controllati dall’imperialismo, per lo più lo liberano del suo ruolo poliziesco pur preservandone le fonti di profitto. La storia del capitalismo è punteggiata di numerose crisi. Esso le ha superate modificandosi, ma conservando sempre la sua logica sostanziale. Segnatamente sotto la spinta delle lotte sociali, il capitalismo è costantemente costretto a rimuovere le contraddizioni da se stesso prodotte, con una continua fuga in avanti che non gli consente di controllarle senza farne nascere delle altre. Rimane sempre la contraddizione fondamentale, che è la contrapposizione di interessi tra una minoranza che domina la vita sociale e l’immensa maggioranza degli uomini, sfruttati e dominati. Così la storia del movimento operaio è costellata di vittorie parziali, spesso importanti, ma mai decisive. Le analisi che continuamente annunciano come prossima la fine del capitalismo e il suo ineluttabile crollo ci sono estranee. Il “catastrofismo” è sempre stato il sostegno di pratiche ora di smobilitazione ora di esaltazione, impedendo in tal modo di precisare i veri obiettivi.

Oggi, l’inflazione

La crisi attuale è di una natura particolare. Non si tratta più, come nel passato, di una fase di sovrapproduzione che lascia disoccupati milioni di uomini e inutilizzate numerose attrezzature. Oggi, tutti gli aspetti della vita sociale sono coinvolti. I rapporti economici internazionali sono minacciati. Masse di capitali fluttuanti si muovono da una parte all’altra del pianeta a fini speculativi, sconvolgendo la bilancia dei pagamenti internazionali. L’inflazione è divenuta un fenomeno connesso al sistema, da esso accettato e, entro certi limiti, persino voluto. Gli aumenti di produttività sono molto grandi, ma quello dei prezzi non è mai stato così forte. Contrariamente a quanto pretendono le classi dirigenti, all’origine di questa situazione non vi sono gli aumenti salariali strappati dai lavoratori, bensì i meccanismi di sfruttamento sui quali riposa il potere di queste classi. La redditività del capitale tende ad abbassarsi per effetto di immobilizzazioni sempre crescenti. Al fine di compensare questo ribasso e mantenere i margini di profitto, le imprese manipolano i prezzi per autofinanziare i propri investimenti e accaparrarsi così gli aumenti di produttività dovuti al lavoro di tutti. A ciò si aggiungono gli effetti della disparità dei redditi. Il capitalismo indebolito ricorre all’inflazione come metodo di ripartizione dei frutti del lavoro. E’ ingannevole presentare l’inflazione come un “male in sé che colpisce tutto il mondo”. Essa è un artificio che le imprese dominanti hanno escogitato allo scopo di proseguire la loro politica costante: accumulare il capitale e svalutare la forza-lavoro. E’ un modo per rispondere alla crisi attuale della società capitalistica: gestire i suoi conflitti anestetizzandoli e tentare di compensare gli aumenti legittimi delle materie prime soffocandoli. L’inflazione spinge infine a rifugiarsi nel consumismo, unico sfogo di un bisogno di esistere che non può essere soddisfatto né con il lavoro né con l’attuale vita urbana. In ciò il capitalismo ha trovato ancora un mezzo di perpetuarsi e assicurare il proprio profitto. Ma è per esso un mezzo non privo di pericoli. L’inflazione mette in causa il livello della vita e contraddice l’idea di un progresso sociale continuo garantito dal sistema: essa è dunque generatrice di conflitti sociali (operai, contadini, piccole e medie imprese). Inoltre, le strutture sociali e le abitudini di consumo la rendono difficile da dominare. L’inflazione non è dunque che l’espressione di squilibri sociali più generali.

Nuovi squilibri

Il problema energetico e la minaccia della scarsità di risorse non rinnovabili servono ai difensori del sistema per spiegare le difficoltà con le quali esso oggi si scontra. E’ vero che certe risorse naturali non sono inesauribili. E’ vero che recentemente sono sorti problemi seri, particolarmente nel campo dell’energia. Ma la politica del capitalismo internazionale – e in particolare quella delle grandi compagnie petrolifere – porta anche la principale responsabilità di questa situazione. Infatti, questa politica ha ritardato la messa in atto di misure capaci di compensare la rarefazione prevedibile di certe materie prime. Problemi questi tanto più gravi per il fatto che si pongono nel contesto della crescita demografica mondiale.

Nel mondo

Il capitalismo internazionale cerca di mettere a profitto una situazione che egli stesso ha contribuito a creare, ma non per frenare la crescita e ridurre il consumo globale, bensì per ridistribuire i poli di questo consumo. Le nazioni ricche che formano il “centro” economico del mondo esportano certe industrie in certi paesi della “periferia”. Si hanno così nel Terzo Mondo zone di sviluppo relativo, zone di sottosviluppo relativo e zone di sottosviluppo accentuato. Le disuguaglianze si approfondiscono, ma vengono differentemente ripartite. Contemporaneamente, le divergenze di interessi tra gli U.S.A., i paesi capitalistici europei e il Giappone vanno accentuandosi.

In Francia

Per quanto riguarda la Francia, la disparità si accentua sempre più tra “poli di sviluppo” e zone economicamente sacrificate. I contadini, cacciati dalla terra o vincolati ai loro fondi dalle aziende agro-alimentari e dal costante indebitamento, costituiscono una mano d’opera disponibile a buon mercato. Lo stesso vale per i piccoli commercianti, trasformati in gestori stipendiati. L’estensione dei meccanismi di sottoimpiego facilita la generalizzazione dei rapporti di produzione capitalistica al fine di accrescere i profitti delle grandi imprese. La concentrazione capitalistica viene accelerata dalle restrizioni del credito che colpiscono principalmente le piccole e medie imprese senza alcuna considerazione per la loro utilità sociale. Paradossalmente, nel momento stesso in cui si sviluppa l’internazionalizzazione del capitale, gli Stati nazionali sono chiamati a svolgere un nuovo ruolo: tocca a essi evitare che le conseguenze delle mutazioni economiche conducano a una grave crisi sociale. Essi costituiscono anche un momento di arbitraggio degli interessi economici tra le parti rivali della classe dominante, senza tuttavia possedere le più importanti facoltà di decisione economica che, ogni giorno di più, vengono assunti direttamente dalle società multinazionali.

Una crisi di società

Nella società capitalistica, il termine cui si riferisce ogni prodotto non è il bisogno, ma il danaro. L’oggetto non è che una merce. Tutto è finalizzato alla manipolazione del consumo, e il mercato si estende a tutte le sfere della vita, dall’abitazione al tempo libero fino alla sessualità, comprendendo anche lo spazio, il sole, l’acqua… Nulla è rimasto indenne. A questa prorompente estensione degli scambi commerciali corrisponde un crescente impoverimento dei rapporti tra gli uomini. Più che mai le masse sono isolate e l’uomo frantumato, diviso. Alla divisione del lavoro nell’impresa si aggiunge quella dello spazio (città-campagna, ambiente-lavoro ecc.), del tempo, delle attività. La crescita urbana materializza sul terreno la divisione tra gli strati sociali nel momento stesso in cui spezza l’individuo: lavoratore, compratore, consumatore, gestore, padre o madre di famiglia ecc.

Quale crescita?

Del resto, questa ideologia della crescita si trova oggi rimessa in discussione. Alcuni esperti hanno sottolineato i pericoli di un aumento troppo rapido del consumo delle risorse disponibili. Ne hanno tratto la conclusione che bisogna bloccare la produzione e imporre in tutti i campi quella che essi hanno definito “crescita zero”. Questo concetto ora di moda merita di essere studiato. Che cosa significa? Si tratta in realtà di ridurre lo sforzo industriale per mettere fine allo spreco e preservare le riserve naturali che restano. Ma una tale politica tornerebbe a perpetuare i meccanismi che fanno nascere le disuguaglianze: per questo motivo essa è inaccettabile. Perciò noi intendiamo presentare un’altra soluzione, che consiste nel sostituire a questa nozione di crescita, di natura essenzialmente economica, la nozione di sviluppo: quest’ultima implica molteplici dimensioni che vanno dall’educazione, alla cultura, all’ambiente, alla salute, al tempo libero, alla responsabilizzazione nonché, naturalmente, alla scienza, alla tecnica, alla produttività. Si tratta dunque non tanto di limitare la produzione quanto di produrre diversamente, altri oggetti e con altre finalità.

Nuove contestazioni

Il sistema si scontra con la contestazione, la resistenza e la ribellione. Lungi dall’attenuarsi, la lotta di classe acquista una nuova ampiezza, trova nuove forme di espressione. Di fronte allo sfruttamento della forza-lavoro, che rimane la base del sistema capitalistico, permangono le rivendicazioni fondamentali riguardanti l’aumento del livello di vita e la riduzione del tempo di lavoro. Ma se ne vedono nascere altre, che si applicano direttamente all’organizzazione capitalistica del lavoro, rimettendo in discussione i rapporti gerarchici e imponendo l’esigenza del controllo operaio. Nel campo dell’industria gli esempi sono numerosi (dal Joint Francais alla Rateau, e poi Thionville, la Pechiney-Noguères, e naturalmente la Lip), ma non ne mancano anche al di fuori del terreno della produzione. Stato, Chiese, esercito, scuola: nessun valore, nessuna istituzione oggi vengono risparmiati. Le donne prendono coscienza del loro assoggettamento ed esigono i loro diritti elementari; la famiglia è rimessa in discussione. I detenuti si rivoltano contro il sistema penale. Quartieri si animano sotto l’impulso di comitati locali. Minoranze culturali o regionali rivendicano il proprio diritto all’esistenza. I lavoratori immigrati difendono sempre più fermamente i loro interessi. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: tutto si muove, tutto ribolle. Parimenti, nelle imprese un numero crescente di salariati manifesta la propria volontà di partecipare alla conduzione delle lotte. Di fronte a questa effervescenza, il capitalismo cerca di trovare delle soluzioni, dal momento che non può più accontentarsi di reprimere. Ma i cambiamenti parziali che si tenta d’introdurre in alcune imprese (direzione collettiva finalizzata, management, officine autonome, allargamento e arricchimento delle mansioni) rimarranno illusori, perché il controllo dei lavoratori non si esercita sulle decisioni fondamentali dell’impresa. Al di fuori del settore della produzione, può accadere che il capitale utilizzi nuove contestazioni per aprire nuovi spazi ai rapporti commerciali. Ma il recupero non può essere che parziale. In questo campo il capitalismo raggiunge presto i suoi limiti, poiché viene posto il problema della democrazia: la volontà dei lavoratori è di definire essi stessi i cambiamenti ai quali aspirano. E’ però necessario che le diverse contestazioni trovino modo di unificarsi in un progetto globale di trasformazione. E’ su questa dinamica e su questa aspirazione a “cambiare la vita” che i socialisti intendono basarsi per realizzare un progetto di società.

Dalle lotte sociali alla battaglia politica

In effetti, tutte queste lotte non costituiscono di per se stesse un pericolo per il sistema capitalistico, sempre capace di far fronte a lotte settoriali o di recuperarle e spesso in grado di realizzare gli accomodamenti indispensabili. L’esempio del maggio 1968 dimostra che una mobilitazione di massa, per quanto importante essa sia, trova i suoi limiti se manca di uno sbocco politico. L’unificazione di queste lotte non può avvenire spontaneamente: la loro diversità e la loro configurazione categoriale o corporativa rispecchia la divisione del lavoro imposta dal sistema. E’ indispensabile superare i contrasti così creati tra categorie di lavoratori. Per eliminare queste contraddizioni, per realizzare questa unificazione, non c’è che un mezzo: l’inserimento di tutte queste lotte, comprese quelle elettorali, di tutte queste aspirazioni, in una battaglia politica globale che miri alla conquista dello Stato, alla sua trasformazione e, infine, al rovesciamento del potere della classe dominante. I programmi delle diverse formazioni della sinistra e il programma comune di governo indicano la direzione in cui bisogna avviarsi per andare verso una società diversa. E’ compito in questo momento dei socialisti definire in modo ancora più preciso gli obiettivi, la logica e il modo di sviluppo della società da costruire. Questa definizione è indispensabile se vogliamo raccogliere coloro che ancora esitano, coloro che sono spaventati da certe esperienze intraprese nel nome del socialismo e che non si lascerebbero convincere da certe recenti utopie. Non basta prendere le distanze dalle une e dalle altre. Al contrario, bisogna mostrare che da quelle esperienze sono stati tratti insegnamenti e che di queste utopie sono stati ricuperati gli aspetti positivi.

II socialismo all’ordine del giorno

Una meta lontana chiaramente definita, ma troppo vaga rispetto ai periodi intermedi necessari per raggiungerla: tale da lungo tempo è apparso il progetto socialista. La meta lontana: la fine dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e la scomparsa del salariato, vale a dire una società dove sarà abolita la divisione tra mansioni direttive e mansioni esecutive, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale; dove la diversità di attitudini non sarà più gerarchia di attitudini; dove saranno eliminati i rapporti commerciali; dove il calcolo monetario lascerà il posto a un calcolo sociale basato sulla quantità di lavoro prestato; dove infine lo Stato deperirà fino a scomparire completamente. Questi obiettivi, formulati nella seconda metà del secolo XIX, esprimono ancora oggi, e giustamente, aspirazioni profonde che si oppongono in maniera radicale all’ideologia delle classi dominanti. Essi mettono in luce il carattere relativo e transitorio delle concezioni che queste classi considerano naturali ed eterne. Ma non ci si può accontentare di una meta lontana: sappiamo per esperienza che è impossibile sopprimere in un breve periodo storico tutti i meccanismi economici e tutte le strutture mentali lasciatici dal capitalismo. Il socialismo di domani resterà a lungo tributario dell’eredità del passato.

L’eredità tecnica e culturale

Questa eredità ci offre, sul piano scientifico, tecnico e culturale, una base di partenza infinitamente più favorevole di quella che hanno conosciuto i tentativi precedenti. Ma essa non offre solo aspetti positivi. Già conforme al sistema capitalistico, ne manterrà le caratteristiche anche dopo l’abolizione del sistema di appropriazione privata dei principali mezzi di produzione e di scambio. E’ impossibile operare come se la tecnica fosse neutrale e potesse indifferentemente essere messa al servizio del socialismo o dei capitalismo. La macchina può essere strumento di liberazione, ma può esserlo anche di alienazione. Si impongono dunque delle scelte. Sarà compito del nuovo regime far evolvere la concezione stessa dell’utensile e della macchina, in modo da accantonare quelle tecniche tendenti per natura a perpetuare i rapporti di sfruttamento e da favorire invece quelle che rendono possibile l’introduzione del principio della responsabilità collettiva. Ereditiamo inoltre un mondo inquinato. Che si tratti di semplici rifiuti, di smog industriale, di prodotti tossici scaricati sulle colture, nelle acque o nell’atmosfera, di riscaldamento della temperatura o di rumori, esiste un limite al di là del quale queste polluzioni mettono a repentaglio la vita stessa. Vi sono settori, a cominciare dall’acqua degli oceani e dall’ossigeno atmosferico, in cui questo limite è ormai vicino e sarà raggiunto entro due generazioni. Anche qui bisognerà fare delle scelte; è una necessità assoluta di sopravvivenza collettiva sviluppare le fonti di energia meno inquinanti; sostituire dovunque è possibile le tecniche pesanti e generatrici di rifiuti o di elementi tossici con tecniche più lievi; imporre infine a tutta l’attività di produzione le misure igieniche indispensabili alla conservazione non soltanto dell’equilibrio ecologico del pianeta, ma anche dell’umanità. Altrettanto ambigua è l’eredità culturale. Il livello di insegnamento e di cultura al quale è già pervenuto l’insieme della popolazione è un vantaggio notevole per una esperienza socialista. Ma il sistema educativo troppo spesso ha condotto a sviluppare la competizione, il senso della gerarchia e dell’assoggettamento. Molte abitudini mentali che devono essere profondamente trasformate resteranno ancora a lungo radicate nel comportamento individuale e collettivo. Parallelamente, l’organizzazione capitalistica del lavoro porta a un abbassamento del livello tecnico di numerosi lavoratori e a un’autentica dequalificazione. A tale proposito l’avvento dei socialismo sarà il risultato di una creazione continua che si richiami a una pedagogia collettiva rispettosa delle diverse personalità e dei diversi ritmi di evoluzione: in una parola, che si richiami a ciò che la tradizione operaia francese chiama il “reciproco insegnamento”.

La proprietà sociale, condizione del socialismo

Un obiettivo fondamentale del socialismo è di riportare l’economia al servizio degli uomini anziché mantenere gli uomini al servizio della produzione. Ciò implica che gli elementi più importanti dell’attività nazionale vengano sottoposti alla volontà collettiva. è per questo che la nazionalizzazione dei grandi mezzi di produzione figura in tutti i programmi socialisti. La socializzazione è una condizione necessaria alla loro realizzazione. Ma non è una condizione sufficiente. Da sola essa non muta né la divisione del lavoro né l’esistenza di una gerarchia che rischia di rigenerare una nuova classe dirigente. L’unica strada che sia stata tracciata fino a questo momento si basa sulla centralizzazione delle decisioni. I suoi sostenitori considerano la proprietà sociale come se fosse già la proprietà di tutta intera la società. Le diverse unità economiche ricevono da un centro unico le direttive che devono seguire. Così si pensa di spezzare la logica dell’impresa capitalistica che produce in vista del solo profitto. Ciò che conta in questo sistema è l’importanza del surplus ricavato dall’insieme dell’economia nazionale. Poco importa che questa o quella unità sia finanziariamente deficitaria. Tuttavia, la socializzazione reale delle forze produttive – in altre parole, il carattere collettivo che riveste la produzione in questo o quel campo – non è in nessun caso sufficientemente progredita perché le diverse unità economiche possano essere considerate come fabbriche di una stessa impresa gestita da un unico centro. La proprietà sociale si confonde in questo caso con la proprietà unica di Stato, e la burocrazia tende mano a mano a comportarsi come se essa fosse proprietaria dello Stato, arrogandosi il diritto di stabilire l’utilizzazione del plusvalore sociale prodotto dall’insieme dei lavoratori e ricorrendo, per assicurarsi tale monopolio, a metodi che rendono molto formale il richiamo alla democrazia socialista. Per altro noi non dimentichiamo le particolari condizioni storiche in cui sono avvenute, più di mezzo secolo fa, la rivoluzione russa e, circa un quarto di secolo fa, la rivoluzione cinese. Non ignoriamo i risultati che sono stati ottenuti in un certo numero di campi e vediamo come le potenze capitalistiche hanno dovuto tenerne conto. Dopo aver sperato per lunghi anni che i regimi comunisti potessero venire progressivamente «rimossiti dalle zone in cui si sono fissati, queste potenze alla fine sono state costrette a praticare una politica di coesistenza. Ora esse cercano di trarre profitto da questa sconfitta favorendo una certa integrazione dei paesi comunisti in un sistema mondiale dominato dal capitalismo. I prezzi del mercato capitalistico sono, effettivamente, i prezzi mondiali. Il modello di consumo capitalistico influenza, se non l’insieme dei paesi comunisti, almeno i paesi comunisti europei. Questo tipo di evoluzione, verosimilmente, continuerà fino al giorno in cui il rapporto di forze verrà rovesciato su scala mondiale, e cioè praticamente fino al giorno in cui un nuovo tipo di società socialista si stabilirà nell’Europa occidentale. Non c’è modello che possa insegnarci che cosa potrebbe essere questo nuovo socialismo. Ma è ormai possibile fissarne il progetto su basi solide e credibili.

L’autogestione, chiave di volta di un socialismo democratico

Il socialismo dell’autogestione verso cui si orienta attualmente il movimento socialista francese si baserà su diverse forme di proprietà collettiva (Stato, regione, comune, associazioni varie ecc.), e su poteri il più possibile decentrati. Queste forme di proprietà tenderanno a coincidere con la socializzazione reale delle forze produttive. Dovunque interverrà tale processo, e dunque in primo luogo in tutte le imprese che costituiscono i poli di dominazione economica, dovrà effettuarsi l’elezione degli organismi di amministrazione e di gestione da parte dei lavoratori interessati.

Si possono certamente prevedere adattamenti (associazione degli utenti o mantenimento di un ruolo decisivo dello Stato) in funzione della natura della produzione o dei servizi. La regola generale sarà comunque la progressiva estensione del principio democratico all’insieme delle attività economiche e sociali.

Ma l’elezione, e cioè la delega del potere, non risolve tutti i problemi. Il rapporto mandante-mandatario tende, in un certo senso, a ricostituire il rapporto dirigente-diretto. Perché questa situazione possa essere modificata, bisogna che i mandanti siano in grado di controllare i mandatari. Questo obiettivo del controllo appare già nelle lotte attuali; ma nella società capitalistica non può essere raggiunto realmente, perché ogni controllo è precario ed effimero se gli sfugge l’origine del potere.

Nel sistema attuale, il potere appartiene agli azionisti, o più esattamente ai gruppi finanziari e ai managers che manipolano le loro assemblee. Nel socialismo di Stato, la fonte del potere è la designazione da parte degli organi dello Stato centrale. Nel socialismo dell’autogestione, sarà l’elezione dei responsabili da parte dei lavoratori, con la cautela di un controllo permanente nei confronti dell’eletto. Un altro rischio potrebbe essere di restringere l’autogestione nell’angusto quadro dell’unità economica di base: potrebbe allora svilupparsi l’egoismo d’impresa.

D’altro canto, le direzioni delle banche, degli organismi commerciali e delle unità di vaste dimensioni sfuggono praticamente a ogni controllo popolare. Il controllo della base sulle decisioni non basta a ovviare ai pericoli di deviazioni tecnocratiche.

In effetti, al di là di un certo livello, il controllo non può esercitarsi che in funzione di riferimenti precisi, e questi riferimenti non possono essere forniti che dal piano, o più esattamente dai piani (nazionali, regionali, locali). La pianificazione democratica, vale a dire la determinazione democratica (mediante il dibattito e il voto) dei bisogni considerati come prioritari, è indissociabile dall’autogestione, di cui essa è la forma generalizzata.

L’autogestione definisce dunque un sistema sociale le cui collettività di base godono di una grande autonomia di decisione: impresa, quartiere o comune rurale, agglomerazione, regione, e anche associazioni di qualsiasi tipo, che si tratti di sindacati, di associazioni di consumatori o di residenti, di società sportive o di movimenti pedagogici, ecc.

Un sistema sociale di questa natura, lungi dal pretendere di far scomparire i conflitti connaturati a ogni società, mira al contrario a permetterne l’espressione precoce e la soluzione pacifica grazie a una ridistribuzione dei poteri.

Per questa ragione, l’autogestione non raggiunge tutto il suo significato se non si estende all’intera società, il che implica la generalizzazione delle sue regole di base: decisioni prese a un livello il più vicino possibile agli interessati, scelta e controllo dei responsabili da parte di coloro stessi che li avranno delegati a decidere. Questa forma di organizzazione della vita sociale è la sola che possa oggi raccogliere il bisogno di responsabilità e di creatività che il capitalismo reprime così potentemente.

Le strutture costituzionali e giuridiche che definiranno i poteri politici ed economici della società socialista dell’autogestione varieranno secondo il livello (locale, regionale e nazionale) e la natura dei relativi settori (produzione, collettività pubbliche territoriali, vita associativa e servizi sociali). Per un certo periodo, lo statuto dell’impresa autogestita avrà un carattere sperimentale. In ogni caso tuttavia verrà escluso l’apporto in capitale e il contratto di locazione d’opera, a favore di un orientamento verso formule in cui l’apporto di lavoro dia diritto a una parte dei frutti del lavoro stesso e alla partecipazione alle decisioni essenziali: natura della attività produttiva, modo di ripartizione dei ricavi (nel quadro degli obiettivi pianificati), metodi di designazione dei dirigenti, dell’ampiezza dei loro poteri e dei controlli ai quali essi sono soggetti. Quanto ai fondi necessari alla creazione di nuove imprese autogestite, questi potranno provenire sia dal risparmio raccolto attraverso la mediazione del settore socializzato del credito, sia da prestiti pubblici. Questo capitale, concesso preferibilmente a prestito, verrà rimunerato su una base forfettaria, e di conseguenza non potrà influenzare le decisioni perché alieno da rischi economici. Bisogna ripeterlo: l’autogestione non è compatibile che con una società estremamente egualitaria. Il lungo periodo necessario alla sua attuazione esige dunque una lotta costante per diminuire le disuguaglianze ereditate dal capitalismo.

Infine, il socialismo dell’autogestione intende sviluppare e non ridurre le possibilità di innovazione. Nel sistema attuale l’imperativo del profitto congela innovazioni di indiscutibile utilità sociale. E, al contrario, favorisce l’incremento di produzioni la cui utilità sociale è pressoché nulla. La facoltà di innovare è circoscritta al cerchio ristretto di coloro che decidono e dirigono. II socialismo dell’autogestione libererà, in tutte le sfere della vita sociale, le immense possibilità di creazione oggi sterilizzate. La pianificazione democratica prevederà un pacchetto di crediti disponibili, per appoggiare tutte le proposte di miglioramenti e di cambiamenti (e in particolare la creazione di imprese) avanzate dalle cellule di base del paese. Bisogna collegare questa attività creatrice ai nuovi processi di espressione dei bisogni, collegati anch’essi alla rappresentanza di collettività di base nell’elaborazione della pianificazione.

La pianificazione, strumento della volontà collettiva

Applicata in circostanze storiche di guerra e di carestia, la pianificazione si è spesso tradotta in burocratizzazione dell’economia, fonte di spreco e di inefficienza; accaparrata poi dai tecnocrati del neocapitalismo, la pianificazione è stata ridotta a un vasto studio di mercato. Nessuna di queste concezioni illustra ciò che potrebbe essere il Piano come strumento di sviluppo socialista in un paese economicamente avanzato. Il Piano deve innanzi tutto esprimere una volontà politica: è un mezzo per realizzare la scelta di una società, un tipo di crescita voluto e non subìto. In questo senso, non si può separare il suo contenuto dai metodi di elaborazione. Il Piano non può essere l’espressione di una volontà politica se non è elaborato democraticamente. Perché non esiste interesse generale astratto. E’ nel processo democratico di confronto tra le diverse istanze e collettività che si definisce l’interesse comune, che si risolvono i conflitti e si salvaguardano i diritti delle minoranze. E’ per questo che la pianificazione democratica presuppone una società decentralizzata, viva, fondata su unità di collettività autogestite: essa esprime un processo di confronto permanente. In questa logica, un piano nazionale non potrebbe essere concepito isolatamente. Se il suo intendimento fondamentale è di esprimere chiaramente i grandi orientamenti della volontà collettiva per ciò che concerne la trasformazione della società, esso non raggiunge tutto il suo significato se non è esso stesso, da una parte, un elemento di regolamentazione e di scelta inserito in un contesto di piani e di programmi decentralizzati al livello di regioni e di settori industriali. II Piano, oggi, può essere concepito come imperativo nei suoi grandi orientamenti e flessibile nelle sue applicazioni. Le scelte centrali riguarderanno la durata del lavoro, la parte relativa all’investimento produttivo, al consumo collettivo e al consumo privato, e le priorità rispettivamente assegnate allo sviluppo dei diversi settori e regioni. L’applicazione di queste scelte viene assicurata dall’appoggio di dotazioni di bilancio, dall’uso selettivo delle imposte e dalla politica dei prezzi. L’esecuzione corretta del Piano, la chiarezza nella ripartizione degli utili, la salvaguardia dei frutti del lavoro e del risparmio che può provenirne esigono una società liberata dal cancro dell’inflazione. Ciò richiede la restaurazione di rapporti integri tra colui che presta e colui che prende a prestito (vale a dire, nella attuale congiuntura, la indicizzazione di qualsiasi risparmio) e una completa riorganizzazione di tutti i meccanismi di finanziamento dell’investimento. Infatti solo il credito rimborsato su una base indicizzata quando l’investimento diviene effettivamente produttivo, con un interesse inferiore all’aumento della produttività, può finanziare l’apparato in condizioni non inflazionistiche. Queste misure, se sono assolutamente necessarie, non sono tuttavia sufficienti, perché il problema dell’inflazione è anche di ordine politico, nel senso che esso riguarda l’intera società. Non vi è lotta efficace contro l’inflazione senza una riduzione molto consistente dell’ineguaglianza dei redditi e del patrimonio e senza l’introduzione progressiva di una nuova struttura dei consumi, obiettivo che è in piena coerenza con gli orientamenti già espressi. L’impresa vede dunque le proprie decisioni incanalate dalle stimolazioni del Piano. Ma, rimanendo in una situazione di competizione, che essa sia socializzata oppure privata, l’impresa resta libera delle proprie decisioni, salvo poi a rivedere gli indici d’incentivazione o di penalizzazione previsti nel Piano se la volontà politica che questo esprime tarda a tradursi nei fatti.

La trasformazione dello Stato

Che cos’è lo Stato socialista? L’utopia anarchica di una federazione di produttori? La realtà del centralismo burocratico? L’immagine oscilla tra queste due opposte caricature che riproducono una contraddizione fondamentale. Da una parte, i socialisti non possono mantenere lo Stato capitalistico tale e quale. Le istituzioni, l’amministrazione non sono neutrali: esse sono profondamente impregnate dal sistema capitalistico, del quale assicurano la conservazione.

In queste condizioni, mantenere le strutture dello Stato capitalistico significherebbe perpetuare il dominio della borghesia, rinunciare a una democrazia autentica, rischiare di rimettere in discussione ad ogni momento le conquiste del socialismo. Bisogna sostituire a questa costruzione un’organizzazione socialista dei poteri, che è il riflesso nel campo politico del socialismo dell’autogestione. D’altra parte, il problema dello Stato non si pone in se stesso. Esso non può essere disgiunto dal problema della lotta di classe: perché è un’illusione credere che il capitalismo scomparirà automaticamente al momento della presa del potere da parte dei socialisti. Le forze capitalistiche manterranno solide posizioni nei più importanti settori dell’economia, nell’apparato dello Stato, e troveranno potenti appoggi esterni in un mondo dominato dall’imperialismo americano. I socialisti non possono rifiutarsi di affrontare una discussione sulla natura e sulle funzioni del potere statale. Durante la fase di transizione al socialismo lo Stato, beninteso, sarà mantenuto, ma verrà profondamente trasformato.

Al fine di offrire ai gruppi e alle collettività il mezzo per assicurarsi il più strettamente possibile la gestione dei propri interessi e la decisione del proprio avvenire, la nuova organizzazione dei poteri si baserà su questo principio già enunciato: la decisione deve essere presa al livello più vicino possibile agli interessati, tenendo conto delle sue incidenze sul resto della collettività.

Una stessa funzione, la gestione dell’economia per esempio, comporta responsabilità di varia natura e implica dunque una pluralità di istanze decisionali: unità di produzione, ente locale, dipartimento, regione, l’intera nazione. Questo principio implica una rottura con tutte le forme attuali di centralizzazione.

Bisogna prevedere passaggi di potere per alcune importanti funzioni collettive (educazione, sanità, trasporti, apparato regionale). Alcuni servizi amministrativi, attualmente espletati a livello centrale, possono esserlo in un quadro diverso (servizi centrali sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti) o in altra sede (regionale, locale, settoriale).

Un certo numero di responsabilità non possono tuttavia esercitarsi che a livello centrale. E’ questo, in particolare, il caso delle attribuzioni specifiche dello Stato; ma anche di certe esigenze della pianificazione, come la salvaguardia degli equilibri regionali.

L’esercito dovrà essere profondamente trasformato per corrispondere alla propria funzione di difesa di una collettività nazionale che assicura liberamente il proprio avvenire e per rompere con la tendenza del potere attuale a fare dell’esercito uno strumento diretto contro quello che viene definito il “nemico interno”.

Contro il concetto astratto del cittadino isolato di fronte allo Stato, il socialismo intende offrire agli uomini e alle donne la sovranità del potere politico. Due principi stanno al centro della questione: quello di rappresentanza e quello di controllo.

La rappresentanza è indispensabile. Ma non bisogna assimilarla ad una firma in bianco. L’eletto deve essere designato sulla base di un mandato preciso e controllabile, determinato in funzione dei problemi posti e della natura delle mansioni affidate.

Il controllo deve integrare la rappresentanza e assicurarne la fedeltà. Tale rivendicazione è espressa da numerosi organismi in cui i poteri di iniziativa e di intervento devono essere considerevolmente sviluppati: comitati di fabbrica, comitati di quartiere, associazioni di consumatori, collettivi di animazione, ecc. Il corpo elettorale ha il diritto di sapere e di chiedere conto: bisogna che gliene siano forniti i mezzi necessari. E deve essere possibile il riesame dei delegati e del contenuto della loro delega. Bisogna affermare con forza il diritto di sapere dei cittadini e delle associazioni, il loro libero accesso alle pratiche e l’informazione sulle decisioni da prendere. Si tratta di un importante mutamento delle nostre abitudini, indispensabile tuttavia se non si vuole che una nuova classe dirigente si appropri del potere nello Stato socialista. Il ruolo dei partiti non è in nessun caso quello di monopolizzare l’esercizio delle funzioni di gestione e di animazione nell’insieme della società. Essi devono esprimere le grandi scelte che si offrono alla collettività e favorirne l’attuazione.

Le organizzazioni sindacali, i movimenti degli utenti, le associazioni dei consumatori, degli inquilini, dei residenti dovranno contribuire a definire gli orientamenti che saranno presi ad ogni livello di organizzazione dei poteri pubblici. A questi diversi livelli, commissioni specifiche (sull’urbanistica, sull’istruzione, sulla viabilità ecc.) permetteranno di associare all’esercizio di queste responsabilità un maggior numero di cittadini secondo le loro competenze e i loro centri di interesse.

La realizzazione di questi obiettivi implica la formazione degli uomini. L’ideologia dominante è penetrata largamente in tutte le classi della società. Le ineguaglianze mantenute dal sistema educativo consentono di manipolare l’opinione pubblica. L’accesso all’informazione è falsato tanto dalle ineguaglianze culturali che dalla concentrazione dei mezzi di informazione.

Senza il cambiamento del nostro sistema scolastico e lo sviluppo dell’educazione permanente, la democrazia socialista rischia di rimanere privilegio di una élite, allargata e diversa da quella attuale indubbiamente, ma sempre in grado di accaparrarsi il potere sociale contro i principi del socialismo. La liberazione degli uomini consentirà l’accesso alla libertà, anzi alle libertà. Queste, oggi troppo spesso bistrattate anche se costantemente difese dalle forze democratiche, devono essere considerate come inviolabili nelle fasi successive del socialismo. Il socialismo dell’autogestione si basa sul pluralismo. Esso garantisce la libertà di espressione a tutti, sostenitori o avversari del socialismo, riconosce a tutte le minoranze il diritto alla propria differenziazione e all’affermazione della propria identità collettiva.

Una strategia per vincere

Definito il progetto di un socialismo democratico fondato sull’autogestione, restano ora da precisare gli elementi di una strategia che consenta a tale progetto di realizzarsi.

Una strategia di lotte

Costruire il socialismo presuppone l’unità d’azione – attraverso la formazione di un autentico fronte di classe – di tutti coloro che hanno interesse a distruggere la dominazione economica, sociale, ideologica e politica del capitalismo.

La lotta di classe rimane, come abbiamo detto, il motore indispensabile del cambiamento sociale. Nulla si può fare senza la mobilitazione e l’azione alla base di tutti gli sfruttati dal sistema.

Una strategia di lotte deve partire dalle forme attuali dello sfruttamento e della dominazione capitalistica. Un ampio fronte di classe deve dunque appoggiarsi in primo luogo alla classe operaia, la grandissima maggioranza dei lavoratori salariati, operai, impiegati, tecnici, ingegneri, i quali tutti subiscono forme di sfruttamento. Parimenti esso si basa su coloro che la crescita capitalistica ha privato dei loro mezzi di produzione: contadini, lavoratori individuali.

Altre categorie sociali, e in particolare quelle dei piccoli e medi imprenditori, sono ugualmente colpite dal potere delle imprese dominanti. Sarebbe tuttavia pericoloso pensare che una forma di medesimo malcontento nei confronti del regime possa bastare a unire tutte queste categorie. Tale unità si frantumerebbe al momento di passare dalla contestazione alla proposta, e ciò tanto all’opposizione come al potere.

La realizzazione del fronte di classe presuppone dunque la volontà di condurre lotte unitarie, di impugnare divisioni nate dallo sfruttamento capitalistico, di mettere in discussione le strutture gerarchiche, di trovare dei terreni di lotta in cui possano rivelarsi momenti di solidarietà comune.

Così, questo fronte di classe, istintivamente difensivo e antimonopolistica, attraverso un processo di chiarificazione dei propri obiettivi politici a breve e a lungo termine, deve diventare offensivo, anticapitalistico. Per dirigere una tale strategia di lotte, per cementare il fronte di classe, è indispensabile un grande partito socialista.

Un grande partito socialista

La destra può permettersi di ridurre un’organizzazione politica ad alcuni apparati elettorali destinati ad assicurare, attraverso manovre clientelari o individuali, la promozione di nuove équipes di governo.

La sinistra non deve farlo. Dal momento che il suo programma non si limita alla conquista del potere e che implica una trasformazione profonda delle strutture economiche e politiche del paese, e poiché deve basarsi sulla adesione popolare, la sinistra ha bisogno di organizzazioni di massa.

Così un partito socialista è innanzi tutto lo strumento che si creano coloro che subiscono lo sfruttamento capitalistico per unificare le loro lotte.

Per questo, bisogna mettere fine al troppo frequente divorzio tra azione politica e lotte sociali: non ci deve essere azione politica senza un’azione condotta sul duplice terreno delle istituzioni (Parlamento, regioni, amministrazioni comunali ecc.), e dei luoghi nei quali lo sfruttamento, l’alienazione e la dominazione sono vissuti direttamente.

Questa frattura tra l’azione politica, circoscritta al campo istituzionale, e la lotta sociale, limitata a un terreno particolare, quando si è verificata non ha mai consentito al socialismo di realizzarsi. Il compito di un partito socialista oggi è di essere presente dovunque. Ma ciò è possibile soltanto a condizione che la sua base sociale sia effettivamente operaia e popolare. Ora, la struttura della vita politica francese e le conseguenze della divisione sociale del lavoro costituiscono ostacoli considerevoli all’impegno politico, specialmente per militanti di fabbrica, donne, giovani. Un partito socialista si caratterizza dunque per la volontà di accordare una reale priorità politica e materiale al proprio inserimento in tutti i luoghi di lavoro: da ciò lo sviluppo del settore industriale, la formazione e l’accesso a posti di responsabilità per i militanti che provengono da questi settori.

Su queste basi un partito socialista, per assicurare il proprio ruolo di animatore delle lotte da una parte e di direzione politica e di conquista del potere dall’altra, deve adempiere contemporaneamente a più funzioni:

– una funzione di elaborazione collettiva delle esperienze, dei programmi strategici, delle ricerche precedenti del movimento operaio. Senza di ciò, i militanti socialisti rischiano di ripetere gli errori del passato nelle azioni che dirigono;

– una funzione di incontro di militanti che operano in settori diversi e che non possono portare a termine il loro compito se non dispongono di spazi di informazione, di confronto e di critica reciproca. Se questi spazi non esistono, un partito socialista rischia di ricreare nel proprio seno le stesse fratture tra eletti e militanti, tra dirigenti e diretti, tra lavoratori manuali e intellettuali che caratterizzano la divisione sociale del lavoro nel sistema capitalistico;

– una funzione di sintesi e di elaborazione collettiva. Si tratta di concepire il lavoro intellettuale necessario come una funzione cui tutti devono collaborare, e non come il lavoro degli intellettuali in seno al partito. Sarebbe tuttavia erroneo pensare che tutte le battaglie da condurre possano e debbano essere portate avanti dai soli partiti. I sindacati, in particolare, hanno un ruolo essenziale. Nel quadro della loro autonomia, spetta a loro definire i propri orientamenti e le condizioni della propria necessaria unità d’azione.

D’altro canto, altre organizzazioni (gruppi municipali, comitati di difesa e di utenti, organizzazioni di consumatori, associazioni familiari, movimenti della gioventù e di educazione popolare) si formano nei diversi campi della vita quotidiana.

Tutte queste organizzazioni, se non hanno responsabilità di governo, devono intervenire nell’elaborazione del progetto e nel dibattito strategico. Bisogna dunque ricercare l’unità d’azione dei partiti, dei sindacati e di queste organizzazioni, rispettando la loro specificità e la loro autonomia, per dare vita a un reale fronte di classe. In una tale prospettiva, la questione decisiva della presa del potere può finalmente essere posta.

Prendere il potere per trasformarlo

La conquista dell’apparato statale è un obiettivo indispensabile; ma non è sufficiente. Una tappa necessaria di questa strategia passa attraverso la conquista delle leve di comando dello Stato. Senza questa tutti i successi parziali o settoriali non potranno sfociare nella trasformazione della società. Noi rifiutiamo dunque il sogno di focolari di socialismo che dovrebbero prolificare fino a svuotare lo Stato borghese di tutta la sua sostanza. Rifiutiamo anche il mito della “grande sera” in cui dovrebbe istantaneamente avvenire una gigantesca presa di coscienza collettiva e l’istituzione di uno Stato socialista. Non abbiamo infatti né l’illusione di pensare che la conquista di poteri parziali permetta progressivamente di prendere il potere, né quella di credere alla possibilità di risolvere ogni cosa soltanto con la conquista del potere statale. La sinistra al potere subirà i limiti connessi a un tipo di Stato, di apparato economico, di esercito e di polizia che avrà ereditato. D’altra parte, essa non potrà permettersi di aspettare a lungo prima di trasformare la natura del potere nel paese. Senza di ciò, incontrerà gli stessi ostacoli con cui già ebbero a scontrarsi tutti i governi di sinistra che si contentarono di gestire alla meglio un apparato politico ed economico le cui strutture erano rimaste legate direttamente al sistema capitalistico. Si capisce dunque che l’azione di un governo di sinistra non basterebbe da sola ad avviare il passaggio al socialismo. Questo, pur garantendo a ogni tappa tutte le possibilità di una alternativa democratica, deve appoggiarsi su una forte e cosciente mobilitazione delle forze che l’avranno portato al potere. Un simile obiettivo non verrà raggiunto se i lavoratori scaricheranno soltanto sui loro governi il compito di portare avanti la trasformazione della società. Il grado di coscienza collettiva e di organizzazione dei lavoratori, la loro capacità di iniziativa nei rispettivi settori, sono una condizione essenziale perché si attui la trasformazione dei rapporti di produzione. Il collegamento costante tra la mobilitazione popolare e l’azione di governo sarà il motore della trasformazione della società. Perché ciò avvenga, fin dalla presa del potere bisogna privilegiare più direzioni: avviare un cambiamento di rapporti di produzione nell’impresa, limitare l’arbitrio padronale con l’introduzione delle fondamentali norme democratiche, trasformare il modo di elaborazione del Piano e assicurare il controllo democratico della sua esecuzione, ridefinire la funzione dell’esercito e della polizia nella società, riorganizzare le istituzioni nello spirito del progetto di autogestione, promuovere a tutti i livelli una reale attività culturale.

Una strategia europea antimperialista

La politica internazionale di una Francia di orientamento socialista dovrà impegnarsi rapidamente in due direzioni fondamentali: la politica europea e la politica nei confronti dei Terzo Mondo. L’Europa mercantile è fallita, perché per i capitalisti non esistono frontiere significative ai confini dell’Europa. A più di quindici anni dalla firma del trattato di Roma, appare chiaramente che l’unione doganale, alla quale si è ridotta l’applicazione di tale trattato, non ha portato a gettare le basi economiche e politiche di un’Europa indipendente. Eppure esiste una evidente comunanza di cultura e di tradizioni tra paesi divenuti ormai troppo piccoli per affrontare da soli l’inquietante avventura del mondo moderno. è giunto il momento dell’Europa dei popoli, l’Europa dei lavoratori, l’Europa dell’economia collettivamente controllata, l’Europa delle libertà collettivamente garantite. Un’azione coordinata delle forze socialiste dovrebbe preparare l’unificazione dello statuto dei lavoratori, l’attuazione di grandi servizi pubblici, particolarmente in materia di produzione e di acquisto di energia, di intervento regionale, e di esperienze guida nei campi dell’educazione e della sanità. Questi non sono che i primi esempi. L’Europa come noi la concepiamo non potrebbe fondare il proprio sviluppo sullo sfruttamento del resto del mondo, in competizione o in complicità con l’imperialismo americano. E’ in rapporto al Terzo Mondo che si valuta una politica internazionale. La Francia socialista opererà per la scomparsa delle forme che assume oggi lo sfruttamento del Terzo Mondo: il saccheggio delle sue risorse, la sottoremunerazione della sua mano d’opera e l’asservimento dei suoi mercati. Bisognerà ammettere e prevedere rialzi regolari dei prezzi delle materie prime, proporzionati alle differenze tra i ritmi di aumento della produttività. Sarà necessaria una cooperazione internazionale compatibile con le scelte di sviluppo che i paesi del Terzo Mondo devono effettuare liberamente. Sarà necessaria una protezione internazionale dei lavoratori immigrati. Infatti, che si tratti del colpo di stato fascista del Cile o della crisi energetica, numerosi avvenimenti recenti vengono a ricordarci come l’imperialismo, attraverso il canale delle società multinazionali e dello Stato americano, attraverso i legami con regimi da esso stesso instaurati o mantenuti, eserciti il suo dominio su una grande parte del pianeta. In definitiva dunque, è il sostegno attivo alle lotte dei popoli dominati che consoliderà la convergenza profonda della nostra battaglia per il socialismo con quella delle forze che si battono per la liberazione del Terzo Mondo.

L’Unione della sinistra: un impegno irreversibile

Attualmente, la conquista del potere in seguito a vittorie elettorali sembra essere l’ipotesi plausibile. II marzo 1973 e il maggio 1974 hanno mostrato che tali vittorie erano possibili ormai a breve scadenza. In vista di questa vittoria, l’Unione della sinistra è una condizione indispensabile. Perseguita già da molti anni, essa sarà necessaria anche dopo la presa del potere e lungo tutta la fase di transizione al socialismo. In questo senso, l’Unione della sinistra è un impegno irreversibile. E’ per questo che il programma comune firmato nel giugno 1972 costituisce una svolta così importante nella storia della sinistra contemporanea, riconosciuta come tale persino da coloro che non lo sottoscrissero. Adottandolo, il Partito comunista, il Partito socialista e il Movimento dei radicali di sinistra hanno voluto dare una forma concreta e attuale a ciò che ormai costituisce per essi una strategia permanente di unità. Essi hanno in tal modo reso più credibile la capacità di governare delle forze di sinistra, nell’intento di realizzare i loro obiettivi prioritari, e hanno dimostrato la loro volontà di combattere le potenze finanziarie che dominano la nostra società. L’Unione della sinistra non si è fermata alla sottoscrizione del programma comune. Questa alleanza profonda della sinistra francese in seguito non ha cessato di allargarsi e di approfondirsi, consentendo cosi, nel maggio 1974, di suggellare intorno a Francois Mitterrand l’unità dei firmatari del programma comune e di altre forze che, come il Partito socialista, si richiamano al socialismo dell’autogestione. Così, è apparso possibile un nuovo passo avanti verso l’unità dei socialisti, il quale rispecchia la profonda maturazione che trasforma il movimento operaio e popolare di questo paese. Maggio 1968, maggio 1974: due date importanti nella lunga storia delle lotte popolari. La sinistra deve fare il bilancio degli insegnamenti derivatine. Così essa si assumerà la duplice esigenza del proprio rinnovamento e della propria unità.

Soltanto a queste condizioni è possibile la sua vittoria.

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