Discorso di Bettino Craxi: “Turati e Pertini” (1982)

TURATI E PERTINI

Discorso del Segretario del PSI Bettino Craxi al Convegno storico Internazionale “Filippo Turati e il socialismo europeo”
Milano, dicembre 1982

 

 

Non è senza emozione che parlerò sta mane di Filippo Turati, che fu il fondatore e l’apostolo del movimento socialista e del primo partito nazionale dei lavoratori italiani, e di Sandro Pertini, eroe dell’antifascismo socialista che oggi, Presidente di tutti gli italiani, onora questo importante convegno con la sua presenza.

Attraverso la rievocazione di vicende dolorose ed eroiche risalterà in modo nitido quanto sia stato profondo il legame tra i due uomini che, insieme a tanti altri valorosi, furono ad un tempo vittime di una brutale persecuzione e protagonisti di una aspra e difficile lotta ch’essi seppero sempre condurre con grande coerenza ed immenso coraggio.

Nei documenti e nelle testimonianze di quegli anni terribili per i socialisti e per tutti coloro che non si piegarono di fronte alla dittatura, ritroviamo, in tutta la loro intensità e nobiltà, l’amicizia e la solidarietà che affratellò i due uomini nella sventura e nel sacrificio, li accomunò nella lotta, e li unì in quella comunità di ideali ch’essi persegui vano con fede quasi religiosa, spinti da quell’amore intransigente per la libertà e per la giustizia che rappresentarono per Filippo Turati e rappresentano per Sandro Pertini, l’imperativo ispiratore della loro condotta e della loro vita.

Mi sono proposto di far derivare interamente dai fatti e dal racconto dei fatti quel giudizio che è già entrato nella storia del nostro paese e nella storia del movimento socialista come testimonianza del grande contributo ch’esso diede alle lotte per il progresso e la libertà dell’Italia. Sono fatti che si collocano nella cornice di un dramma che si è ormai consumato aprendo la via a nuovi drammi che, con il passare degli anni, si volgeranno in piena tragedia.

È il dramma del fascismo vincitore e trionfante, delle vie quelI’esilio e del carcere che inesorabilmente si aprono per gli oppositori, delle forze che, sconfitte, non abbandonano il campo e si preparano per una lunga resistenza, imboccando la strada della lotta, del pericolo, del sacrificio e della speranza.

Milano, 1926.

Alle 22,15 del 24 novembre, un anziano signore con il cappello calato sugli occhi, esce dal portone di via Foscolo n. 3, dopo essere passato dal foro praticato in un muro e sale su di una automobile che subito riparte.

È Filippo Turati, che è sfuggito al controllo dei poliziotti che giorno e notte stazionano di fronte al portone principale della sua casa sotto i portici della Galleria, al n. 23. Inizia per il vecchio capo socialista il tentativo di fuga dall’Italia verso la Francia. Sono con lui Bauer, Parri, Oxilia, Da Bove, Carlo Rosselli e, a Savona, dove si prepara l’avventuroso viaggio per mare, si unisce a loro Sandro Pertini.

È nei pressi dei “Pesci vivi”, una trattoria ai margini del porto di Savona, che avviene l’imbarco.

Racconta Carlo Rosselli: “Ci imbarcammo a pochi passi dagli agenti. Comandi secchi. La barca si scosta. “Buona pesca”, ci grida all’uscita un pescatore. “Grazie”. Il pesce grosso ha rotto la rete e corre in alto mare. Dodici ore durò la traversata. Orribili. Al mattino, dopo 90 miglia, di navigazione Capo Corso rimaneva introvabile. Una nuvolaglia bruna impediva la vista: è un momento di incertezza e di smarrimento a bordo. Il vento ci aveva fatto deviare. Col mutamento di rotta la danza si fa più selvaggia. L’onda sbatte sulla fragile chiglia che pare debba ad ogni colpo schiantarsi. Turati, steso su cordami a prua, resiste stupendamente al mare e solo nelle ultime ore sembra soffrire. È calmo, mirabilmente calmo…”.

Alle dieci del mattino i fuggiaschi sono nella rada di Calvi. Racconta ancora Rosselli: “Il giorno dopo partiamo. Egli non vorrebbe. Al mattino è venuto di persona a svegliarci e ci tratta come figlioli. Ci abbracciamo. Dal piccolo molo di Calvi, con Pertini al fianco, agita a lungo il fazzoletto mentre le lacrime gli rigano il volto. Addio, Turati, addio: anzi, arriverderci, in Italia, presto…”.

La fuga avventurosa è riuscita, comincia il dramma dell’esilio.

Un anno dopo Pertini scrive a Turati e ne ricorda l’anniversario: “Maestro – scrive Pertini – domani è l’anniversario sacro della nostra partenza da Savona ed io voglio ricordarlo con Lei! Rammenta, maestro, l’interminabile attesa lungo la stradale di Vado? “Mi sembra di essere tornato in trincea” mi disse Parri. Ricordo che Rosselli, appena usciti dal porto, si chinò a baciarla. lo rimasi sino all’ultimo a contemplare la mia città. Si ricorda maestro, il nostro interrogatorio alla Capitaneria di Calvi ? “Chi è il comandante del motoscafo?” “Moi, Filippo Turati “.

Ed in quei giorni i nostri grandi amici, come noi, ricorderanno e molto parleranno del Maestro lontano. Li sentirà vicini a Lei e con essi Ella sentirà pure l’ ottimo Da Bove ed anche Pertini “il mozzo della imbarcazione Turati”. I superstiti della spedizione che rientrarono in Italia furono subito arrestati e successivamente processati e condannati a pene relativamente miti: chi ad un anno echi a dieci mesi.

In una lettera a Turati Pertini commenta il processo e cinque giorni di dibattimento: “Se sapesse Maestro, tutti i particolari di quelle giornate veramente gloriose. Parri, Rosselli furono sublimi ed eroico è stato il contegno dei difensori che hanno riabilitato la tanto diffamata classe degli avvocati. La popolazione savonese ha sempre assistito i nostri amici sin dalla prima udienza con devozione e con coraggio. A voce le racconterò alcuni episodi che le dimostreranno di quale fierezza siano stati capaci i savonesi, questi miei buoni concittadini di cui oggi io sono tanto orgoglioso…”

Turati e Pertini sono in Francia, il primo a Parigi, il secondo si stabilirà a Nizza. Pietro Nenni, firmando “ex-directeur de l’Avanti!” presenta la figura di Turati nel “Soir”. In particolare egli cita due date: 1919-1926.

Scrive Nenni: “1919. Dal basso sale la collera delle masse coi lividi della guerra, esasperate dall’insolenza o dei suoi ricchi, esaltate dall’esempio dei bolscevichi. Il vento spira verso la violenza e la dittatura. Filippo Turati al Congresso di Bologna, fronteggiò da solo o quasi le illusioni del momento; egli ebbe come il presentimento della trappola che aspetta le masse. “La violenza di cui parlate – egli dice – non servirà che ai reazionari contro di voi, poiché la reazione, impotente a resistervi sul terreno della legalità, si avvarrà del primo pretesto per attaccarvi con le bombe e con i fucili”.

“1926. La profezia – ahimè – è diventata una realtà. Contro il movimento operaio insufficientemente organizzato, Mussolini, l’uomo della reazione e della guerra, ha scatenato una controrivoluzione di sangue. Le conquiste democratiche e socialiste sono annientate. Niente più libertà. Turati dapprima fronteggia la tirannia mussoliniana. Ma nuove leggi di eccezione vietano ormai quel po’ che ancora sussisteva del diritto di parola, di scrivere, di pensare.. Rimanere in Italia quale ostaggio sarebbe una viltà. Filippo Turati, vecchio, sofferente, ha preso la via dolorosa dell’esilio. E adesso è qui per eseguire il suo compito. Non è questa una vita esemplare che il Carlyle avrebbe Inserito nella ” Vita degli eroi”?

È lo stesso Turati che prende la penna per spiegare le ragioni della sua presenza in Francia. “Mi si chiede da varie parti – scrive – perché ho lasciato l’ltalia di soppiatto, come un ladro; mi si chiede se le minacce fasciste mettevano veramente la mia vita in pericolo. La vita? Ma che cosa è la vita per un vecchio combattente quasi settuagenario, che cos’è la vita quando il lavoro di cinquanta anni sembra fuggirsene per sempre, quando non c’è più libertà di pensiero, né libertà di stampa, né tribuna parlamentare. Ho capito che l’ostaggio doveva liberarsi con i propri mezzi e seguir la strada già percorsa dai suoi amici. Mi sono ricordato – scrive ancora – che c’era un vecchio paese di libertà al quale quattro rivoluzioni e il sacrificio di un sangue generoso hanno permesso di diventare padrone di se medesimo e di riservare l’ospitalità repubblicana ai proscritti di ogni altro paese. Eccomi dunque qui. Abbiamo pietosamente raccolto la nostra bandiera strappandola agli insulti delle camicie nere”.

“Questa bandiera noi vogliamo spiegarla davanti ai moltissimi operai e contadini italiani che vivono in Francia: stendardo di speranza, di ripresa e di rivincita. I lavoratori italiani sanno benissimo quel che essi gli devono: quarant’anni di progresso sociale, lo scambio della servitù economica contro una condizione di libertà e di dignità, l’iniziazione alla vita politica”. Ma l’esperienza dell’esilio è difficile, l’adattamento è lento, le difficoltà di una ripresa della lotta organizzata sono enormi, il morale è messo a durissima prova. Lo ammette lo stesso Turati, scrivendo a Nenni: “Le difficoltà sono grandi, maggiori di quel che si immagini. L’opera di “isolamento morale” del fascismo – la sola quasi che possiamo fare e che sentiamo di fare – non riesce che in minima misura”.

Lo conferma Pertini scrivendo a Turati: “Sì Maestro – anche a me sembra “inutile” l’esilio. Da molto – anzi potrei dire fin dai primi giorni – ho avuto questa dolorosa impressione che in seguito si è trasformata in un vero tormento. Il lavoro manuale in un primo tempo mi donò lo stesso sollievo che danno gli stupefacenti. Di là vengono voci che sembrano chiamare noi, che ci ostiniamo a credere e a sperare in qualche cosa di più alto. Ed io ho paura di non saper resistere a questo richiamo, Maestro. Sento la nostalgia della mia terra, della lotta che conducevo nell’ombra della piccola Savona, sotto il continuo pericolo. Allora si viveva”.

E infatti Pertini, uomo di azione e di lotta, cerca di dar vita a nuovi progetti e a nuove iniziative. “Sto cercando un buon tipografo” scrive a Turati proponendogli di dar vita a pubblicazioni antifasciste che – dice – “la Concentrazione poi dovrebbe assumersi l’obbligo di diffondere”. Ma le condizioni sono tutt’altro che favorevoli, il regime fascista sta consolidando la sua presa nel Paese e la sua immagine all’estero. Pertini ne parla in una sua lettera a Turati: “Del movimento politico locale purtroppo non posso darLe novità. Si avverte la sensazione che il popolo italiano, dopo tredici anni circa di tensione, di nervi, stanco, sfinito, si sia piegato su se stesso e vada oggi adattandosi alla nuova situazione creatasi in Italia. Forse questo è il pericolo peggiore del movimento antifascista”.

Il problema di come tornare a far sentire la voce degli esuli, la voce dei socialisti e degli antifascisti, agli italiani in patria è il primo dei problemi. Pertini cerca di realizzare il progetto di una radio trasmittente clandestina che partendo dal territorio francese possa inviare messaggi in Italia. Da Nizza informa del suo progetto Turati. Si legge in una sua lettera del 16 maggio 1928: “Maestro amatissimo, perdoni se solo oggi rispondo alla Sua ultima, ma sono stato obbligato ad assentarmi da Nizza per “il noto affare”.

“In questi giorni sono sorte nuove ed impreviste complicazioni che hanno messo “in panne” l’agenzia. Sono stato costretto a trasportare tutto in una nuova località per maggiore sicurezza. Quindi bisognerà riprendere gli esperimenti per stabilire i dati necessari sulla lunghezza d’ onda, sulla modulazione della voce, ecc… I miei amici di Savona mi aiutano in questo, quindi per ora sarà bene non mettere al corrente altri”. Ma il “noto affare” si imbroglia e Pertini viene arrestato a Eze sulla Costa Azzurra “in una casetta di campagna – racconta un suo amico – dove aveva impiantato una stazione radiotelefonica”.

Il “Petit niçois”, riportando la notizia, afferma che l’arresto è avvenuto a seguito di una “denuncia anonima circostanziata”. Turati informato dell’arresto di Pertini si mobilita per la sua difesa. Definisce il suo operato “scopo onestissimo, moralissimo, all’intento di rompere l’infame cerchia in cui il fascismo ha imprigionato l’Italia, sequestrandola dal mondo civile, violando non so se la lettera dei trattati, ma certo lo spirito del diritto delle genti, offendendo le più elementari libertà, a cominciare da qùella epistolare, ponendo una muraglia mortale tra i fuoriusciti e le loro famiglie, martoriando queste ultime per ricattare i primi e in sostanza menomando e ledendo il diritto di asilio”.

Turati attiva gli avvocati e sollecita interventi politici in difesa di Pertini. Al deputato Guernut invia una biografia di Pertini che egli stesso ha scritto di suo pugno e nella quale tra l’altro si legge: “Alessandro Pertini era uno degli avvocati più giovani e più pregiati del Foro di Savona. Molto talento ed un gran cuore. Coraggio e probità fuor misura. Sarebbe diventato deputato del collegio se non avesse avuto la disgrazia-fortuna di essere ancora troppo giovane. Egli appartiene al Partito Socialista Unitario e siccome era ardente antifascista il suo studio venne devastato, lui fu perseguitato e boicottato nell’esercizio della sua professione e finalmente fu condannato senza neppure interrogarlo alla deportazione per via amministrativa per cinque anni nella Cajenna d’Italia. Riuscito a sottrarsi alle ricerche della polizia fascista, la notte dell’11 dicembre 1926 siamo partiti insieme per mezzo di un leggero motoscafo, a rischio della vita, raggiungendo la Corsica donde venimmo a Nizza e a Parigi. Non avendo nessun modo di ripigliare la sua professione di avvocato ne un’altra analoga, sprovvisto di mezzi, e non volendo pesare sulle nostre troppo magre casse d’assistenza, Pertini prese bravamente il coraggio a quattro mani e approfittando del fatto che uno dei nostri migliori compagni ex segretario del nostro partito a Roma, aveva ripigliato a Nizza il suo mestiere di muratore, andò da lui e si fece manovale ed imbianchino, guadagnandosi la vita con una aspra fatica, ciò che non gli impedì di dedicare il suo impegno la sera e la domenica, ai bisogni dei suoi compagni d’esilio ed agli emigrati italiani in generale”.

“Il caso Pertini – aggiunge Turati – non è punto un caso ordinario. Esso verifica tutta la sostanza della questione del diritto d’asilo nella sua più nobile espressione”.ll processo va bene, e si conclude in modo quasi insperato. In aula Pertini aveva dichiarato: “Riconosco di aver violato le norme che regolano l’ospitalità di questo Paese che mi dona asilio, ma signor Presidente, questa violazione è una fatalità che incombe sopra di noi proscritti, che vogliamo continuare la lotta per la libertà del nostro Paese. Perché questo è un nostro categorico dovere, al quale non possiamo sottrarci a meno di rinunciare a vivere. E si vive veramente solo quando tutta la vita è illuminata dalla luce di un alto ideale e dalla lotta continua e tenace, per questo ideale essa è animata”. La sentenza è mite: un mese di prigione con il beneficio della condizionale, senza iscrizione nel casellario penale e senza multa.

Le cronache del processo raccontano che in aula scoppiò un applauso e si sentì Pertini esclamare: “Io vi ringrazio, signor Presidente, e debbo ancora una volta constatare che qui in Francia vi è giustizia!”. Turati a Parigi dà vita ad un bollettino di informazione. È il Bollettino “Italia” di cui egli stesso è direttore e in gran parte compilatore.

Pertini dopo l’insuccesso nel tentativo di impiantare una stazione radiofonica, rientra in Italia, ma viene subito scoperto ed arrestato. La notizia è data da Turati sul numero 19 del Bollettino “Italia” del 20 dicembre 1929: “con una audacia che è piuttosto temerarietà, – vi si legge – varcò di nuovo la frontiera sempre allo scopo e con l’illusione di annodare relazioni continue con i suoi amici all’interno. In questo tentativo fu scoperto, arrestato e mandato davanti al Tribunale Speciale che il 30 novembre 1929 lo condannava a dieci anni e nove mesi di reclusione per aver diffuso all’estero notizie che possono diminuire il prestigio del regime ” .

“La sua condotta – scrive Turati – fin dal primo giorno, fino all’esito del processo, è stata quella di uno dei più puri eroi della storia. La nobiltà del suo stoicismo non si smentì per un solo istante”.

“Se il carcere non l’uccide sarà un giorno uno delle forze spiccate dell’Italia redenta. Noi mandiamo al nostro amico – sepolto vivo – i sensi della nostra più ardente solidarietà”. Il bollettino “Italia” racconta la cronaca del processo: “quando la sentenza fu pronunciata Pertini si alzò gridando con tutta la forza: “viva il socialismo, abbasso il fascismo”. Gli amici e i compagni seguono con trepidazione la sorte di Pertini in carcere. Claudio Treves gli scrive: “Viva gli ultimi giovani, tu, Paolo, Rosselli e pochi altri che meritate l’avvenire migliore. Viva i giovani che continuano, correggendo, perfezionando, rifacendo con più saggio idealismo l’opera in cui si sono stremati i vecchi. Crediamo, speriamo, lavoriamo, come se ogni giorno dovesse essere per noi l’ultimo e come se l’ultimo giorno non dovesse venire mai”.

Carlo Rosselli scrive a Turati che Pertini è stato trasferito al carcere Turi di Bari e commenta “è il penitenziario per gli ammalati: il trattamento è migliore che nei carceri ordinari sia per vitto che per “aria”.

Il 30 ottobre 193p Filippo Turati aveva ricevuto a Parigi una busta non affrancata: è indirizzata all’on. Filippo Turati; con la dicitura “personale riservata”. Contiene una lettera di Palmiro Togliatti che dice “un compagno in carcere avendo potuto comunicare con l’avv. Pertini mi incarica di trasmettere alla direzione del Partito socialista da parte di Pertini le notizie seguenti: Pertini non sta bene di salute. Il medico del carcere ha chiesto il trasferimento ad un altro carcere. Pertini prega che questa notizia venga comunicata al signor Costa di Nizza. Inoltre si dovrebbe far sapere a questo signor Costa che egli, Pertini, può ricevere comunicazioni simpatizzate con sugo di limone sulle pagine della “Revue des deux mondes”.

“Le pagine sulle quali è scritta la comunicazione dovranno essere indicate con un segno appena percettibile”. Turati, scrivendo a Costa, commenta: “lo andrei molto a rilento in questa faccenda delle comunicazioni “simpatiche” che mi sembrano sempre pericolose per lo stesso amico che si vorrebbe confortare” e Costa dal canto suo osserva: “In fondo, attraverso la corrispondenza della madre, che gli ricorda testualmente quanto gli inviamo ed alla quale lui scrive quanto desidera farci sapere, diciamo così, nel campo sentimentale, il contatto confortante rimane per quanto molto ridotto e poco rapido; quanto alle notizie politiche, le rare buone notizie politiche, esse attraversano le mura degli ergastoli, ed infatti trovò modo di farmi sapere cori abili allusioni che era al corrente di tutto”.

Nelle lettere di Pertini, Turati figura come un parente. O è definito come “vecchio zio” o come l'”ottimo cugino”. “Ottimo cugino”, scrive il 1° dicembre 1930, “grazie del tuo interessamento per me, ma non ho bisogno di nulla. Ho letto con attenzione la tua lettera. Tutto ho compreso, e mi è di grande conforto il pensiero che tu mi assista con tanto affetto”.

Tramite Costa continua lo scambio delle informazioni e dei messaggi. Turati viene informato di una lettera di Pertini alla madre: ” Tu sii forte, mamma. Promettimi, mamma, sulla tomba del povero babbo che mai compirai la debolezza di intervenire in mio favore. Bada, mamma, che non potrei sopportare una simile umiliazione. Renderei vano ogni tuo intervento con un atto irreparabile”. E ancora Costa raccomanda a Turati: “Veda lei, caro maestro, di mandargli ogni tanto una cartolina illustrata firmata zio Pippo; il suo ricordo è il solo che gli possa essere di grande conforto”.

Nell’aprile del ’30 Pertini riesce a impostare clandestinamente una lettera: “il Maestro come sta? Gli dirai che penso spesso a lui. Potessi ancora vederlo. Salutalo tanto per me” e ancora, accennando all’anniversario della morte di Giovanni Amendola scrive: ” Fra giorni vi recherete a Cannes, sulla tomba di un altro “cavaliere senza macchia e senza paura”. Ricordatemi in quel giorno presso questa tomba ove anch’io un tempo mi recavo per attingervi fede e forza. Oggi vado ricordando a me stesso il suo ammazzamento; talvolta nella vita bisogna sempre lottare senza speranza e senza paura. Così lotto io oggi”.

E lo “zio Pippo”, il “maestro”, continua a pensare a lui, vorrebbe suscitare una campagna di opinione in favore di Pertini, si preoccupa delle condizioni in cui vive.

Scrive a Costa: “Ho pensato ai libri che potremmo spedirgli e ho anche chiesto il parere di qualche amico, più competente di me che vado diventando sempre più analfabeta. La scelta non è facilissima, dovendo procurargli libri seri, che gli diano la soddisfazione di aumentare la propria cultura, e che al tempo stesso non siano troppo pesanti e infine che possano trovare franchigia dalla censura carceraria”.

Mentre si moltiplicano le prove della solidarietà umana incalzano in tutta la loro complessità i problemi della lotta politica. Le divisioni e le lotte intestine tra i socialisti oltreche nell’ambito del movimento antifascista continuano a svilupparsi anche nell’esilio rischiando di indebolire alla radice le già scarse possibilità di resistenza e di iniziativa dei fuoriusciti.

Il problema della unità socialista domina perciò, in primo luogo, le preoccupazioni di Filippo Turati. Le divisioni, le scissioni, il frazionamento delle forze ha aperto la strada alla vittoria della reazione. Turati è assertore della unificazione di tutte le forze antifasciste a cominciare dalle forze socialiste.

Ne scrive a Nenni in una lettera aperta che appare sull’Avanti! di Zurigo il 5 aprile 1930: “Non fui mai, tu lo sai benissimo, il feticista di una qualsiasi “unità”. La parola è troppo ambigua ed elastica. Seduce i semplici cui fu detto che I'”unione fa la forza” e i contabili fanatici del tesseramento. Ma, se è tra contrarii ed incompatibili, crea la Babele del pensiero, la paralisi nella azione. Ogni tattica può avere del buono, purché tenga una linea. Fare del proletariato un solo cervello ed un solo cuore è la meta ideale, non può essere sempre il punto di partenza, ed esige appunto che l’unione sia nei cervelli e nei cuori”. In Italia, dopo il felice distacco dagli anarchici, che fu il nostro atto di nascita, si disputò per un quarto di secolo sulla “via migliore”. “Intanto non si marciava. Marciavano gli altri. Ci raggiunsero e ci furono sopra”. Filippo Turati, in pochi sintetici tratti, analizza il corso della vicenda storica che aveva diviso il movimento operaio e socialista. “Quali dissensi ci tennero a lungo divisi ? Tre sostanzialmente:

  1. Il dissenso sulla partecipazione o l’appoggio a governi democratici e sue eventuali alleanze.
  2. La valutazione delle riforme, della conquista da farne, anche prima del miracolo rivluzionario, la penetrazione graduale ed assidua di tutti gli istituti borghesi.
  3. L’apprezzamento del fenomeno bolscevico e delle dittature.

Tre questioni spazzate via: le due prime dal fascismo che esclude ogni democrazia, l’ultima dall’insanabile conflitto con i comunisti”. E aggiunge: “Tre fatti dominano oggi la storia: il ricordo della guerra, la quale può riprodursi più terribile; la tragedia del fascismo, vero brigantaggio di classe; il fenomeno oscuro del bolscevismo”.

Sono in tanti a premere in favore dell’unità socialista. Anche Rosselli scrive a Nenni, sul medesimo tema, e afferma che “in Italia la gente è stufa dello spezzatino dei partiti antifascisti che giustamente considera una delle massime cause della sconfitta” e aggiunge che tra i socialisti Pertini, De Rosa, Oxilia, erano tutti fautori dell’unità. “Essi sono convinti – scrive – che tra gli elementi disposti seriamente a battersi non esistono oggi serie distinzioni, o se esistono, scompaiono non appena ci si ponga all’opera” che “la scissione non è dovuta a profonde distinzioni teoriche” perché “Il massimalismo non riuscì mai a teorizzarsi e rimane in tutta I ‘Europa socialista una eccezione”, e che “la lotta per la libertà interessa tutti gli uomini liberi e tutti gli antifascisti” e di essa “i socialisti si trovano necessariamente a costituire il fulcro”. Anche sulla questione della unità Turati e Pertini sono sulla stessa linea ed il “vecchio” ha sempre vivo nell’animo suo il ricordo del giovane lontano rinchiuso nel fondo di un carcere italiano.

Quando il Comitato Esecutivo della Sezione di Parigi del Partito Socialista, iniziando il tesseramento del 1931, invia a Turati la tessera n. 1 offrendogliela quale segno di “grande affetto e di altissima considerazione”, il vecchio capo socialista risponde ringraziando ma aggiunge: “Ma a me il numero uno non spetta (helas) che come anzianità. Mi permettete di cederlo ad un assente che deve essere presente: ad Alessandro Pertini. Lo avrei come un favore”.

Ma l’esilio di Turati volge verso l’epilogo. Il vecchio combattente ha lanciato in esilio la sua parola d’ordine ” resistere e continuare”. Gli anni dell’esilio non furono per Turati anni di riposo ma di duro lavoro. Animò la Concentrazione Antifascista, lavorò per l’unificazione delle forze socialiste, presiedette la “Giovanni Amendola” associazione di cultura popolare, curò la pubblicazione del bollettino “Italia” scriveva sul “Libertà” e su una miriade di giornali in Europa ed in America in uno sforzo infaticabile di propaganda, parlava in conferenze e in assemblee di lavoratori, partecipava ai Congressi della Internazionale socialista circondato dalla stima e dalla amicizia di tutto il socialismo europeo. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse in Boulevard d’Ornano in casa di Bruno Buozzi. Con la famiglia Buozzi visse tre anni, sino al giorno della sua morte. Egli si spense la sera del 29 marzo 1932.

Una immensa folla accompagnò il grande socialista italiano al cimitero del Père Lachaise, Nenni, Rosselli, Buozzi, Modigliani trasportarono l’urna delle sue ceneri. Mentre Claudio Treves gli rivolse l’ultimo saluto. “Dall’esilio ti sei forgiato un’arma formidabile. Del calvario hai fatto una insuperabile barricata. Grazie Filippo! Tu ci hai dato l’insegnamento supremo: la dignità dell’esilio. Vecchia storia italiana questa, da Dante a Mazzini. Gli italiani più veri sono i fuoriusciti. Sul rogo di Garibaldi, Giosuè Carducci augurava che i partiti gettassero la feccia delle loro discordie. Sul tuo rogo, Filippo, io auguro che gli antifascisti italiani sappiano gettare ogni particolarismo di formule per serrare l’unità inflessibile nell’azione”.

Alessandro Pertini, il discepolo e l’amico di Filippo Turati rivedrà la libertà solo tredici anni dopo, nell’agosto 1943, in tempo per riprendere la lotta finale e decisiva con i socialisti e con i partigiani a Roma ed a Milano dove il 25 aprile del 1945 saluterà l’ltalia finalmente liberata. Non credo di fare concessioni alla retorica dicendo stamane che nessuno potrà mai cancellare la storia gloriosa ed eroica di questi due grandi combattenti per la libertà e per il socialismo.

 

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