BIOGRAFIA DI S. PERTINI A CURA DI G. VASSALLI

INTRODUZIONE

 

Per incarico della Fondazione di studi storici “Filippo Turati” tocca a me il compito di scrivere l’introduzione a questi due volumi di “Scritti e discorsi di Sandro Pertini”, che della Fondazione fu il primo e sempre rimpianto presidente. E’ un onore, indubbiamente, molto grande, ma al tempo stesso un impegno non facile e ciò soprattutto per ragioni d’indole personale, avendo io vissuto, discepolo, amico e compagno di Sandro Pertini, gran parte degli avvenimenti a cui gli scritti e discorsi si riferiscono molto da vicino, spesso in piena consonanza ma per un periodo di almeno dodici anni in forte, anche se sempre affettuoso dissenso. Tanto difficile che prima di cominciare a scrivere già so che queste pagine, pur rispettose dell’opera presentata, non piaceranno a più d’uno, e per motivi contrapposti. Forse solo Pertini, se fosse vivo, dopo una solenne sfuriata e una serie di rudi rimbrotti, mi darebbe il suo consenso. Fu lui, del resto, a volere che fossi io a redigere la voce “Pertini” per la “Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza” (ed. La Pietra, vol. IV, pag. 518 a 524), ma a sfrondarmene senza pietà la prima stesura (che tuttavia volle conservare per ricordo personale), deplorandone l’eccessiva estensione, oltre che la soverchia diffusione dei miei elogi. Era il periodo nel quale eravamo, oramai da vari anni, di nuovo compagni nello stesso partito, periodo nel quale mi onoravo di appartenere ad una Camera da lui presieduta e nel quale la ritrovata consonanza di vedute mi riportava con più intensa commozione ai sette mesi trascorsi fianco a fianco in Roma tra l’agosto del 1943 e l’aprile del 1944. L’iniziativa della presente pubblicazione è della Fondazione di studi storici “F. Turati”, ma va ricordato che la Fondazione raccolse in proposito anche una sollecitazione dei Gruppi Parlamentari Socialisti, ai quali Pertini appartenne ininterrottamente dal periodo della Consulta (1945). I tre valorosi curatori di questa imponente raccolta (Neri Serneri, Casali e Errera), aiutati dalla costante e appassionata assistenza di Carla Voltolina Pertini, hanno organizzato questi scritti e discorsi in modo ineccepibile: un primo volume dedicato al Pertini politico e militante, un secondo al Pertini nelle istituzioni; quelle istituzioni che da lui riconquistarono fiducia e ripresero vigore, quando egli fu vicepresidente e presidente della Camera e soprattutto quando fu presidente della Repubblica italiana, anzi – come senza retorica fu più volte detto – presidente di tutti gli italiani, e di certo il più sinceramente amato. In realtà le partizioni effettive dell’opera sono tre, potendo la prima – la più breve – rappresentata dal capitolo primo del volume considerarsi del tutto a sé stante rispetto ai capitoli restanti, perché costituisce quanto di scritto è rimasto del Pertini clandestino, esule e detenuto politico, mentre tutto il resto ci presenta Pertini come politico in tempi di libertà, partecipe di una lotta politica indubbiamente impegnatissima, ma di tipo del tutto diverso. Nel primo capitolo, del resto, hanno gran parte le lettere, mentre negli altri (mi riferisco sempre alla prima parte) dominano gli articoli (soprattutto sull’Avanti! e sul Lavoro nuovo, del quale Pertini fu direttore per ben ventun anni), i discorsi congressuali, i resoconti di comizi, che molto opportunamente i curatori hanno ritenuto di inserire nella raccolta, di modo che la visione sottoposta allo storico o al ricercatore fosse la più completa e fedele possibile. Vorrei, nell’ordine, soffermarmi con qualche osservazione proprio sul capitolo I. Gli scritti ivi raccolti non sono, quantitativamente, che minime tracce di una lunga sofferenza e di una grande fede; ma qualitativamente rimangono la parte più bella, da tempo consacrata anche nei libri di storia, la sintesi della figura di un grande patriota in tutto degno del primo Risorgimento: una figura la cui luce è quella stessa che irradierà gran parte della sua vita futura e risplenderà nell’apogeo del suo settennato presidenziale. Purtroppo è spiegabile che i documenti contenuti in quel primo capitolo siano così pochi. Chi li avrebbe diffusi o conservati durante il ventennio fascista? O come avrebbero potuto salvarsi dalla tormenta dell’occupazione nazista? Racconterò un episodio a titolo esemplificativo. Pertini venne arrestato in Roma il 15 ottobre 1943 e tradotto, con altri compagni, prima al braccio tedesco e poi a quello italiano di “Regina Coeli”, dove rimase sino al 25 gennaio 1944. Attraverso il dottor Alfredo Monaco, medico del carcere e nostro compagno, la cui casa usata come nostro covo, nello stesso carcere di via della Lungara, resistette fino al 3 aprile 1944, Pertini inviava quotidianamente una o più lettere ai compagni rimasti fuori. Queste lettere erano dirette a me, a me venivano consegnate e da me, dopo che le avevo lette ad alcuni compagni, venivano gelosamente conservate. Ad un certo momento decisi di riunire questi ed altri preziosi documenti della Resistenza romana in una enorme borsa per carte a più scomparti che affidai ad uno dei nostri luoghi più segreti, un deposito di vecchi giornali che il nostro compagno giornalaio Ferruccio Ferroni teneva in via del Lavatore. Il giorno 3 o 4 aprile, appena i compagni ebbero sentore della mia scomparsa nelle mani delle SS (ero stato catturato alle 13 del giorno 3) Ferroni, che era consapevole dei contenuti pericolosissimi di quella borsa, aiutato dal vecchio amico Paolo Pizzi, tagliò scrupolosamente la borsa all’altezza della serratura (io ne detenevo infatti la chiave) e, così come essa si trovava, senza perdere un minuto, ne rovesciò l’intero contenuto in un forno, dove tutto rapidamente incenerì. Così andarono perduti (anche se fu una misura sacrosanta), con altro materiale storicamente interessante, una serie di messaggi che letti ancor oggi desterebbero stupore ed ammirazione: tale era la forza dell’incitamento continuo alla lotta, l’intensità della speranza, la gioia che Pertini provava nella sopportazione del nuovo carcere a pochi anni dalla cessazione di quello tanto più lungo subito, prima del confino, fino al 1935, l’espressione di una fede senza confini. Così, penso per motivi analoghi, ben pochi sono i documenti relativi al duro periodo trascorso da Pertini nel Nord occupato, dal maggio all’agosto 1944 e poi dall’ottobre 1944 all’aprile 1945. E così pure sarebbe stato difficile ricostruire l’intera raccolta dell’Avanti! clandestino nell’edizione romana o rintracciare nei suoi numeri gli interventi dovuti alla penna di Sandro; ricordo in particolare un suo pezzo in morte di Leone Ginzburg, scritto quasi all’indomani della sua liberazione da Regina Coeli mentre ancora lo occultavo (ma ciò durò ben pochi giorni) in uno dei miei covi, e a me consegnato perché lo passassi per la stampa (Ginzburg morì il S febbraio del 1944). Nel primo capitolo, del resto, hanno gran parte le lettere, mentre negli altri (mi riferisco sempre alla prima parte) dominano gli articoli (soprattutto sull’Avanti! e sul Lavoro nuovo, del quale Pertini fu direttore per ben ventun anni), i discorsi congressuali, i resoconti di comizi, che molto opportunamente i curatori hanno ritenuto di inserire nella raccolta, di modo che la visione sottoposta allo storico o al ricercatore fosse la più completa e fedele possibile. Tuttavia, anche così monco, il primo capitolo, la cui selezione è stata compiuta sulla base dei criteri illustrati nella nota dei curatori, resta ricco di testi estremamente significativi. Al vertice di essi si pongono, ad avviso generale, la lettera alla madre amatissima, Maria Muzio, che per lui aveva chiesto la grazia, e la sdegnosa missiva al presidente del Tribunale speciale, nella stessa data del 23 febbraio 1933, con la quale “il recluso politico Sandro Pertini” comunica di essere profondamente umiliato della presentazione della domanda di una grazia alla quale egli non si associa perché sente che macchierebbe la sua fede politica che più di ogni altra cosa, e più della sua stessa vita, gli preme. Belle e commoventi anche le altre lettere di quel primo periodo, a Clodoaldo Binotti all’atto di lasciare la Liguria per l’esilio, a Filippo Turati da Nizza, alla madre, nel luglio 1933, in morte di Claudio Treves. Sono di un Pertini forte combattente per la giustizia e per la libertà, fermamente inserito nel partito socialista unitario e nella sua tradizione. Pochi, come già detto, i documenti attinenti all’anno 1944; ma essi vanno idealmente integrati con le diffuse interviste nelle quali negli ultimi anni, specialmente durante la sua presidenza al Quirinale, Pertini narrò episodi salienti della sua vita di quell’anno, e segnatamente il suo secondo ritorno al Nord dopo la partecipazione al Congresso di ottobre in Napoli, la grande avventura autunnale attraverso le Alpi insieme a Cerilo Spinelli (“Silvio”), dolorosamente mancato, anch’egli, nella prima metà di questo 1991. Già politici, ed immessi, nonostante il perdurare della guerra partigiana nel Nord, nel circuito delle vicende politiche dell’Italia liberata, gli altri documenti. Il loro principale interesse, quanto meno per chi ricorda la tensione di quei momenti, mi sembra rappresentato dal fatto (indiscusso anche se qui mancano i testi) che Pertini condivide appieno le scelte compiute nell’autunno del 1944 dalla direzione del PSIUP, sulla stessa linea del Partito d’Azione di non partecipare al secondo governo Bonomi: sì che per effetto di tale decisione questo si ridusse da esapartito qual era (in conformità dell’arco dei partiti facienti capo al Comitato di liberazione nazionale) a quadripartito: democratici – cristiani, liberali, democratici del lavoro, comunisti. Si trattò, per chi ricorda quelle pesanti sedute della direzione del partito socialista in via Gregoriana a Roma, di una scelta adottata a maggioranza e da una maggioranza eterogenea: con noi “giovani” votarono, dopo avere vigorosamente parlato per l’uscita dal Governo, Angelo Corsi e Pietro Mancini. La scelta rappresentava una prima e forte riaffermazione non dico del primato della politica sulla guerra, ma certamente del prevalere di valutazioni attinenti al futuro politico che ci attendeva dopo la guerra. Si temeva che con i governi di C.N.L. guidati da uomini come Ivanoe Bonomi si finisse per realizzare una specie di restaurazione, un modello di regime troppo simile a quello prefascista, una continuità su più piani di storico rilievo, non escluso quello istituzionale e quello della stessa forma monarchica. I socialisti si posero con gli “azionisti” sul fronte del rinnovamento; ma la scelta poteva, mentre perdurava duramente la guerra contro il tedesco, essere sfavorevolmente interpretata. E ciò poteva accadere proprio da parte dei compagni del Nord, che avrebbero potuto ravvisarvi un minore interesse per quell’unità tra i partiti antifascisti che appariva tanto più essenziale in un momento nel quale i partigiani, invitati di li a poco dal generale Alexander a “rientrare per l’inverno nelle proprie case”, si trovavano esposti al massimo della sofferenza e del pericolo. Invece Pertini, che di quei partigiani faceva parte e di quelli socialisti era il capo, comprese; e non fece mancare alla direzione del partito l’appoggio dei compagni del Nord. Si poteva e doveva continuare a combattere senza tregua contro l’invasore, ma non si dovevano perdere di vista gli obbiettivi ulteriori della lotta. E soprattutto si doveva cominciare ad esprimere concretamente un segno di dissenso, e quanto meno di riserva, rispetto a tendenze manifestamente conservatrici, o restauratrici del passato. E’ da aggiungersi che si trattò del primo segno di autonomia del Partito dalla crescente egemonia comunista e dai disegni togliattiani. Pertini era stato anzi il primo a tracciare questa linea, come si può leggere nelle prime pagine della lettera 4 giugno 1944 a Nenni e a Saragat a proposito della svolta di Salerno e nella chiusa della stessa circa il legame indissolubile tra la scelta da farsi e la sopravvivenza stessa del partito, e come ad ancor più chiare lettere si può leggere nell’articolo “Tagli netti” pubblicato nell’edizione clandestina milanese dell’Avanti! del 17 giugno 1944. Il capitolo Il degli “Scritti e discorsi”, che i curatori hanno intitolato alla liberazione e alla nascita della Repubblica (1945-1947) pone il lettore a confronto con tre anni cruciali della nostra storia nazionale e della evoluzione del socialismo in Italia. Sotto quest’ultimo profilo, sono gli anni dell’unità d’azione con i comunisti, spinta fino al “fusionismo”, gli anni del Congresso di Firenze (aprile 1946) e della successiva vittoria elettorale socialista direttamente collegata a tale congresso (più ancora che alla coeva lotta per la Repubblica), gli anni della scissione e della nascita del PSLI, l’anno della fine del “tripartito” con la esclusione del PCI e del PSI dal governo (giugno 1947) ed infine dell’ingresso nel Governo De Gasperi dei socialdemocratici coi repubblicani (dicembre 1947). Sotto il profilo più generale furono gli anni della Liberazione e del dopo – liberazione, del Governo Parri e dell’avvento di De Gasperi, della luogotenenza del Regno e dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, del referendum istituzionale conclusosi con la vittoria della Repubblica, dell’Assemblea Costituente e dei primi anni di vita parlamentare, del Piano Marshall e del trattato di pace, con la conseguente privazione dell’Istria e di parte della Venezia Giulia. Bastano queste enunciazioni per rendersi conto che si trattò di anni di successi e di speranze, ma anche di passaggi drammatici. Pertini li visse secondo il proprio immutabile temperamento, ma non in modo uniforme, né conformista. Presente, anche per le sue funzioni di direttore di quotidiani del proprio partito, ad ognuno di questi fatti, spesso commentati con grande vigore e lucidità, Pertini è peraltro grandemente impegnato nei problemi della politica del Partito ed in particolare in quelli dell’unità dei due grandi partiti della sinistra. Non a caso il primo degli scritti di questo capitolo, dettato quando ancora non era terminata la liberazione, è intitolato “Unità proletaria”.

Preoccupazione dominante di Pertini è quella di un dissidio con i comunisti, che si rifletterebbe gravemente in seno alla classe operaia e porterebbe vantaggio alle forze conservatrici. Così egli sarà fortemente contro Saragat e Silone al Consiglio nazionale del PSIUP in Roma (“Collegio romano”, 29 luglio – 1° agosto 1945), che vide, dopo momenti di grande tensione, la piena vittoria di Nenni su posizioni che allora, tutt’altro che impropriamente, venivano chiamate “fusioniste”. Ed è su questo “fusionismo” che si incentra in quei mesi l’interesse di Pertini e cerca di chiarirsi una sua posizione distinta da quelle in cui era stato coinvolto. Nenni, il vincitore del Consiglio nazionale del luglio 1945, non assunse la segreteria del partito (in quel periodo diventava uno dei due vicepresidenti del Consiglio dei Ministri nel Gabinetto Parri, oltre che ministro per la Costituente). Segretario del partito fu eletto proprio Pertini, che d’altra parte era stato il primo firmatario della mozione vincente, seguito da Lelio Basso e Luigi Cacciatore, che furono fatti vicesegretari. Ma la sua segreteria durò poco più di quattro mesi, essendosi egli dimesso, per motivi di dissenso politico, il 18 dicembre successivo. Le ragioni di questa evoluzione stanno proprio nel diverso suo modo di concepire gli scopi della “unità d’azione” esaltata come vincente nel Consiglio nazionale e precisamente l’obbiettivo “fusione” tra il partito socialista e il partito comunista. Tutto ciò risulta chiaramente dalla lettura dei documenti che vanno da pag. 49 a pag. 75 del capitolo II, ivi inclusa dunque quella relazione – mozione al Comitato centrale del gennaio 1946 (trasformata poi in semplice dichiarazione di voto), in cui la firma di Pertini appare accanto a quelle di Leo Solari (allora segretario della Federazione giovanile socialista, molto vicina alla corrente di “Iniziativa socialista”) e di Ignazio Silone, al quale Pertini si era nettamente contrapposto nel luglio precedente. I motivi contro l’obbiettivo “fusione” sono molteplici e si sviluppano per gradi. Anzitutto il motivo attinente ai tempi. Pertini è contro ogni immediatezza e ad un certo punto si lamenterà anche del fatto che nella mozione a sua firma votata dal Consiglio nazionale del “Collegio romano” fosse stato introdotto abusivamente e all’ultimo momento l’inciso “al più presto” (“unità organica da realizzarsi al più presto”). In secondo luogo, dopo aver contestato a luglio l’affermazione di Saragat secondo cui sotto l’unità d’azione si stava intrigando per liquidare il partito socialista, Pertini riconoscerà che uno dei principali pericoli di quella tendenza E’ quello di determinare scissioni nello stesso partito socialista, l’unità del quale gli preme non meno di quella della “unità organica della classe operaia”. A questo si connette il problema della democrazia interna del Partito; e in un’intervista dell’8 agosto ad “Epoca”, il quotidiano di sinistra diretto da Leonida Repaci, già non esita a dire che nel partito comunista permane, quanto meno a livello di funzionari, una “mentalità autoritaria”, non accettabile dai socialisti. In quarto luogo, sempre nella stessa intervista, ed anche in altri interventi, Pertini afferma che il Partito socialista deve prepararsi a svolgere la missione di essere “il mediatore tra il mondo occidentale ed orientale”, mentre invece non può non constatare una totale subordinazione del partito comunista a Mosca e alla sua politica internazionale. A ciò si ricollega il pericolo, denunciato apertamente nella mozione del gennaio 1946, di un inasprimento della situazione internazionale in caso di fusione tra socialisti e comunisti in Italia. Inoltre Pertini guarda con simpatia (ben diversamente da altri socialisti “fusionisti” dell’epoca) ai successi dei partiti socialisti nel resto d’Europa.

Poi si richiama all’opportunità di non perdere il contatto, come potrebbe avvenire con la fusione, con le forze democratiche laiche minori. Infine affaccia anche il problema della Democrazia cristiana e la necessità di tener conto della presenza in essa di grandi masse di lavoratori. Almeno sette argomenti, anche se esposti in modo non organico, e come attraverso un crescendo. Dalla decisiva forza propulsiva dell’unità organica della classe operaia si passa, in meno di cinque mesi, al timore, apertamente denunciato, di un “isolamento della classe operaia”. La relazione al Comitato centrale del gennaio E’ la premessa della mozione che Pertini firmerà insieme a Silone al Congresso di Firenze dell’aprile successivo e attraverso tensioni e trattative che chi vi E’ stato presente ricorda – della maggioranza realizzata con “Iniziativa Socialista” e sostanzialmente anche con “Critica sociale”, che portò alla vittoria finale degli autonomisti: anche se poi questa vittoria finirà in un compromesso con i rappresentanti della “mozione di base”, che si era venuta presentando a quel Congresso come la sicura trionfatrice e. che fino all’ultimo aveva cercato invano di recuperare Pertini. Nel suo discorso del 12 aprile 1946 Pertini aveva gettato a mare la fusione non solo come prematura ma come pericolosa per il partito socialista e per la distensione internazionale, denunciato il partito comunista come assolutamente legato all’URSS e aveva auspicato che ogni progresso del socialismo italiano avvenisse nell’alveo della sua tradizione democratica, comune a quella degli altri partiti socialisti europei, a cominciare da quello inglese (al Congresso era presente, tra gli altri, il compagno Lasky, al quale espressamente Pertini si richiamò nel suo discorso). Al Congresso di Firenze seguirono le vittoriose elezioni del giugno (Pertini è ovviamente eletto al primo posto in Liguria e altrove per l’Assemblea Costituente), l’insediamento dell’Assemblea, la rinnovata partecipazione dei socialisti e dei comunisti al governo De Gasperi; ma è in quello stesso tempo che inizia e si approfondisce, sotto la debole segreteria politica di Ivan Matteo Lombardo, l’avanzata della cosiddetta sinistra del Partito, dai suoi avversari ancora chiamata, anche se per ragioni qualche volta di comodo, fusionista. Saragat comincia ad attaccare questa avanzata e i pericoli dell’alleanza con i comunisti con sempre maggiore decisione e chiarezza. E Pertini, che attraverso i discorsi e gli altri scritti sembrerebbe quasi defilarsi (si occupa – come e pure era giusto – del trattato di pace, dell’insediamento di Nenni agli Affari esteri, dell’amnistia Togliatti e d’altri problemi di giustizia, e denuncia, anche sul piano internazionale, i pericoli di un blocco antisocialista), sente viceversa profondamente il pericolo di una scissione, e ne soffre. A gennaio del 1947 Sandro Pertini comprenderà gli scissionisti, anche se non ne condividerà le idee e ancor meno la decisione. E’ l’unico che viene dalla sede del XXV Congresso a fare una visita, in un estremo tentativo di dissuasione, a Palazzo Barberini. Ma quando vede al tavolo della presidenza Emanuele Modigliani e il PSLI che riassume i vecchi simboli del partito socialista unitario e la sala in entusiastico affluire di bandiere piena di anziani, che egli conosce bene, e di giovani e giovanissimi, che conosce altrettanto bene, comprende che non vi è più nulla da fare e con profonda amarezza e commozione ci lascia. In quei momenti egli sarà uno dei pochi a non scagliarsi con contumelie ed accuse di tradimento contro gli scissionisti, anche se poi, giorno per giorno, criticherà e combatterà la politica del nuovo partito, ricorrendo anche al vecchio armamentario contro i “social traditori” (peraltro da lui mai chiamati espressamente così), soprattutto quando il PSLI nel dicembre 1947 deciderà di entrare nel governo De Gasperi. All’inizio di aprile del 1947 Pertini viene chiamato a dirigere “il Lavoro nuovo” di Genova ed in questo incarico, che manterrà per ben ventuno anni consecutivi lasciandolo solo al momento in cui venne eletto Presidente della Camera, verrà sviluppando i temi della posizione del partito socialista italiano di fronte ai grandi problemi della politica interna e di quella internazionale: le elezioni amministrative in Sicilia con la forte affermazione del “Blocco del popolo”, la drammatica (e definitiva) crisi di governo del maggio-giugno 1947, il piano Marshall e il Trattato di pace, che priva l’Italia di Pola e d’altre zone, la costituzione del Cominform, la politica della Democrazia cristiana. A nessuno può sfuggire che Pertini appare politicamente dubbioso e stanco, salvo quando si tratta di rivendicare i meriti della lotta partigiana o di rievocare i vecchi compagni di detenzione o di fede (Gramsci nel decimo anniversario della morte, Baratono e Vlodigliani in occasione della loro scomparsa, avvenuta per entrambi nel corso del 1947). Diverso sarà invece il periodo che si inizia con il 1948 e che la presente raccolta riunisce nel capitolo III della prima parte sotto il titolo “Gli anni del frontismo”. La situazione che si apre con il 1948 sembra fatta per galvanizzare un combattente socialista della tempra di Pertini. La Repubblica, proclamata sin dal giugno 1946, e la Costituzione, varata alla fine del 1947, sono ormai il passato: acquisito ma concluso. L’idea di una partecipazione del PSI e del PCI al governo con la Democrazia cristiana è definitivamente tramontata da sei mesi; e pochi giorni prima ha avuto inizio in Italia il centrismo. La situazione interna, con autentici scontri sociali, sembra fatta apposta per descrivere questo centrismo come una forza di destra, ed anzi reazionaria, e per sapere che la conquista del potere, ammesso che sia questa la posta, non potrà avvenire che attraverso una aspra lotta e un forte successo elettorale. La situazione internazionale, con l’inizio della guerra fredda, rafforza le spinte neutraliste dei socialisti, spinte che del resto, all’approssimarsi della firma del Patto Atlantico, troveranno espressione anche in alcuni settori della socialdemocrazia. Nello stesso tempo, per un socialista autentico, si conferma e ravviva l’idea di una presentazione elettorale del Partito socialista in liste proprie e del tutto separate da quelle comuniste. Al XXVI Congresso, del gennaio 1948, Pertini, riprendendo idee già propagandate alla fine del 1947, prende posizione contro la costituzione del Fronte democratico popolare e la presentazione di liste comuni con i comunisti per le elezioni della Camera e del Senato della prima legislatura repubblicana. Viene sconfitto, non entra (per la prima volta) nella nuova Direzione del Partito socialista, ma si getta tuttavia con straordinario vigore nella competizione elettorale, alla quale tra l’altro non è neanche personalmente interessato spettandogli per legge (in relazione all’appartenenza della Costituente e alla lunga prigionia sotto il fascismo) un seggio di senatore di diritto. E’ vigoroso ed efficace. Dentro il partito e per il partito, anche se in dissenso con la scelta da questo operata.

All’indomani della sconfitta del 18 aprile si presenta al XXVII Congresso di Genova con la mozione intitolata “Riscossa socialista”, mozione che si potrebbe chiamare quella dei nuovi autonomisti. Ne E’ anzi il primo firmatario, seguito da Riccardo Lombardi, Fernando Santi, Vittorio Foa, Giovanni Pieraccini, Alberto Jacometti (che diventerà per breve tempo segretario del Partito) ed altri. Stupisce (ma non più di tanto, dati i tempi che si vivevano all’interno del partito socialista italiano dell’epoca) la presenza di una tematica di tutta politica interna, senza alcun riferimento a quel che era accaduto negli anni 1946, 1947 e nella stessa primavera del 1948 nei paesi dell’Europa dell’Est. Eppure quei terribili fatti erano stati uno dei motivi principali della scissione social – democratica di Palazzo Barberini, della tenuta del PSLI nonostante molte difficoltà ed avversità, della sconfitta del Fronte. Anzi, nel discorso tenuto al Congresso provinciale di Genova, Pertini, secondo la moda dell’epoca, esalta i progressi sociali e collettivi dei paesi dell’Est comunista contrapponendoli alle misere condizioni economiche e morali perduranti in regioni dell’Italia del Sud, e nel marzo 1950, dì ritorno dall’URSS, esalterà ciò che gli hanno fatto vedere, con una ingenuità difficilmente spiegabile in un vecchio socialista come lui. D’altra parte, nei successivi mesi del 1948, nel 1949 e nel 1950 alcuni fatti, all’interno come all’estero, sembrano dargli motivo per accentuare la polemica contro la socialdemocrazia italiana e d’altri paesi: l’attentato a Togliatti (che si cercherà di ricondurre da episodio di esaltazione individuale ad una congiura), i caduti nei conflitti sociali, la decadenza del partito socialista francese, il preteso piano aggressivo degli Stati Uniti contro l’URSS, l’adesione italiana al Patto Atlantico, la durezza (anche nel linguaggio) del ministro Scelba, la vittoria del comunismo in Cina, la guerra di Corea. Pertini, pur con i suoi scatti autonomi, appare integrato nel frontismo. Singolare, nel quadro dei suoi attacchi agli esponenti socialdemocratici, il suo totale disinteresse per la nascita e la breve vita del P.S.U. (Firenze dicembre 1949 – Torino gennaio 1951). E’ peraltro contenuto nella raccolta l’articolo del 3 novembre 1949 (cap. III, pag. 222) scritto a proposito di quello che della costituzione di quel partito fu uno dei preludi, la uscita di alcuni ministri socialdemocratici dal Governo De Gasperi: assai significativo il titolo “Lasciamo che i morti seppelliscano i morti”. D’altra parte, questo partito, di cui fu segretario Silone e della cui direzione fece parte anche chi scrive, composto dal confluire della sinistra socialdemocratica con la destra socialista (Romita, Luisetti, ed altri), visse una vita difficile, per non dire grama, con una parte dei suoi componenti che ad altro non pensavano, soprattutto negli ultimi tempi, se non a confluire (o a riconfluire) nel PSLI; con il quale appunto si fusero a seguito del Congresso del gennaio 1951, dando vita al PSSIIS (nel frattempo il partito socialdemocratico era divenuto infatti membro dell’Internazionale Socialista), che poi divenne PSDI. Solo in pochi rimanemmo individualmente fuori. E così Pertini potette riprendere i suoi strali verso Romita e verso Saragat.

Se “gli anni del frontismo” furono segnati da episodi gravi ed allarmanti (attentato a Togliatti, aspre lotte sociali agrarie ed operaie, conflitti a fuoco, guerra di Corea, corse al riarmo) i quattro anni successivi, che i curatori della raccolta hanno intitolato (cap. IV) “Alternativa e autonomia” (1953-1957) ebbero uno svolgimento più pacato, quanto meno dopo la conclusione, entro la prima metà del 1953, del drammatico scontro parlamentare sulla “legge truffa” (contro cui Pertini, allora ancora senatore, pronunciò vibranti interventi in Senato e fuori) e del mancato scattare del risultato che i proponenti della legge stessa si erano ripromessi. Furono anni più pacati, anzi di lenta crescita, per quanto riguarda l’Italia. Per i paesi dell’Est europeo, a noi idealmente tanto vicini, la situazione era ben diversa. Ma della loro misera sorte, delle loro dittature mostruose, delle infami montature processuali, dei campi di concentramento, di tutto ciò che in essi avveniva, l’eco era purtroppo scarsa, e non solo in questi “scritti e discorsi”: almeno (eccezion fatta per la rivolta di Berlino del giugno 1953) fino ai fatti d’Ungheria (novembre 1956). Intanto il Partito socialista comincia, con lentezza spiegabile ed inevitabile, la propria riconversione. Anche qui Pertini E’ diverso dagli altri. E’ dominato (e non solo al momento del dibattito intorno al tema di una nuova legge elettorale) dell’idea di involuzioni politiche che sotto la guida della DC e dei suoi alleati si propongono di “mettere al bando il movimento operaio italiano”; ma è anche tra i primi che tende sin dall’inizio di quegli anni ad una svolta decisa nei confronti del mondo cattolico. Quando attacca i socialdemocratici, ne cura sempre una contrapposizione a ciò che, secondo lui, avrebbero fatto o non fatto Turati e Treves: richiamo, questo, ripetuto in varie circostanze, a figure che gli altri del suo partito totalmente dimenticavano ed obliteravano, come se si fosse trattato di corpi estranei alla storia del socialismo: e tali in effetti essi erano rispetto ad una politica esaltatrice di Stalin ed alleata allo stalinismo. Infine si deve sottolineare che, se è vero che anche tra gli articoli di Pertini si trovano elogi a Stalin vivo e morto e si esprime apprezzamento per le asserite grandiose realizzazioni socialiste verificatesi sotto la sua guida, non vi si trova mai una parola, viceversa, di approvazione o di comprensione per i terribili processi politici dell’Europa centrale ed orientale, per i pretesi tradimenti della patria sovietica o sovietizzata, e quant’altro. Ben diversa in questo – e tale che induce a meditare sul grado di consapevolezza dei dirigenti socialisti italiani circa quanto stava ogni giorno accadendo in quei paesi e in quei partiti comunisti – la stampa socialista dell’epoca da quella comunista, che faceva proprie tutte le mostruosità, anche del linguaggio, degli aguzzini di turno. Quegli anni sono anche gli anni nei quali Pertini, eletto come capolista e a distanza degli altri alla Camera dei Deputati nella seconda legislatura, decorato – come gli spettava – di medaglia d’oro al valore partigiano, rivendicatore insieme della prima guerra mondiale e della Resistenza e del loro significato ideale, assertore dell’impegno dei socialisti c a difendere la Patria contro chiunque tenti di aggredirla” (v. pag. 347), solidale con ogni iniziativa di distensione e di pace, ivi comprese quelle provenienti da Churchill (v. pag. 348), sostenitore, alla Camera e fuori, di nobili rivendicazioni sociali e civili, mantiene o riallaccia legami di personale simpatia con esponenti di gran parte del mondo politico e si viene affermando anche come parlamentare rispettato e coerente. Nell’interno del partito egli ha una presa particolare per le donne e per i giovani, a cui dedica significativi interventi, legati insieme alla tradizione socialista e a speranze di evoluzione e di progresso.

Sui fatti d’Ungheria in un primo momento è, a dir poco, cauto (Comitato centrale del novembre 1956, pag. 428), ammettendo pericoli di “restaurazìone Manca” e attribuendo a Nagy il rischio del ruolo di un ” Kerenski alla rovescia”; ma al Congresso di Venezia (febbraio 1957) assume un atteggiamento assai più deciso contro le posizioni del partito comunista italiano e ad esso rimprovera di non aver tratto le conseguenze necessarie dal XX Congresso del PCUS. Sempre al XXXIII Congresso, come già a quello precedente di Torino dell’aprile 1955, E’ chiaramente partecipe dell’evoluzione in atto nel Partito e aperto alla riunificazione socialista nonostante tutti i problemi che questa poneva. I discorsi e gli scritti raccolti nel capitolo V° della raccolta (“Verso il Centro Sinistra”, 1958-1963) sono quelli degli anni della terza legislatura repubblicana, durante la quale il deputato Pertini (rieletto sempre al primo posto nella sua Liguria ed altrove) si afferma sempre di più anche sul piano nazionale. E in linea con la corrente cosiddetta autonomista guidata da Nenni e vincitrice al XXXIII Congresso (Napoli, gennaio 1959) con il 58% dei voti, E’ favorevole al reingresso nel Partito dei socialdemocratici di sinistra del MUIS, rimprovera Saragat come colpevole di aver mandato per aria la unificazione vagheggiata con Nenni a Pralognan sin dal 1956, insiste sul concetto che mai “autonomia” potrà significare per i socialisti autonomia dalla classe operaia, entra attivamente e con giudizio proprio su tutti tali elementi che possono portare ad una svolta nella condotta e nella composizione del Governo, E’ grandemente interessato all’analisi critica di ciò che avviene nel mondo politico cattolico, partecipa ovviamente alla “crisi Tambroni” del giugno 1960 ed E’ alla testa dei dimostranti di Genova, manifestando il massimo apprezzamento e la massima simpatia per quegli esponenti democratico – cristiani che si rifiutarono all’esperienza di un governo DC sostenuto dai voti del MSI. Ricordo tra parentesi che per alcuni dei fatti di Genova (come anche per quelli, minori, accaduti a Roma e in altre città) si svolgerà un lungo e pesante processo dinanzi alla Corte d’Assise di Roma e che Pertini (io ero tra gli avvocati difensori) non volle mancare un solo giorno di udienza, vicino agli imputati ed ai loro avvocati. Alcuni scritti e discorsi dì quel periodo ci mostrano un Pertini rinnovato e come elettrizzato, sempre esaltatore della Resistenza e nemico del fascismo e dei pericoli dì involuzione reazionaria, ma da tutto immesso nel nuovo, rappresentato in quegli anni dalle figure di Giovanni XXIII e di John F. Kennedy, a cui, nelle ricorrenze delle rispettive morti, deliberà pagine piene di simpatia, oltre che di fiducia nell’avvento di grandi novità su scala mondiale. Assume decise posizioni di difesa del PSI contro le accuse provenienti in occasione della preparazione della svolta verso il centro – sinistra dal partito comunista. Tuttavia mantiene fino all’ultimo la propria indipendenza rispetto a tutte le conseguenze della linea “autonomista” di Nenni, facendo votare al XXXIV Congresso nazionale (Milano, marzo 1961) una “lettera Pertini”, diversa dalla mozione vincitrice e da quella delle “sinistre unite” , propone poi una mozione di sfiducia al Governo nel Comitato Centrale del giugno 1961 e mantiene del pari una propria mozione fortemente minoritaria al XXXV Congresso (Roma, ottobre 1963), e vota nel dicembre successivo la partecipazione socialista al Governo soltanto “per disciplina di partito”, dichiarando anzi di compiere con ciò un grave sacrificio per amore del Partito, “la cui sorte E’ stata sempre in cima ai suoi pensieri” (lettera a Francesco De Martino del 18 dicembre 1963, pag. 562).

La mozione di Pertini, fatta votare (ebbe il solo 2,18% dei voti) al Congresso di Roma dell’ottobre 1963 (il 57,42% andò a Nenni e il 39,9% a Basso e Vecchietti), era intitolata “Unità del Partito”. Pertini temeva sin da allora la scissione, che si verificò puntualmente, con la fondazione del PSIUP, nel gennaio del 1964. Avviato oramai il centro – sinistra, gli anni si fanno politicamente meno interessanti. I Curatori hanno raccolto nel capitolo VI (“Progresso democratico e unità socialista”) gli scritti e discorsi di un quinquennio (1964-1969), giustamente ponendo come punto d’arrivo l’anno in cui si disfece l’unità con i socialdemocratici realizzatasi in modo assai discutibile ed anomalo nel 1966, e nel capitolo VII (“Gli anni settanta”) quelli di quasi un decennio (1970-1978), che chiudono, con l’elezione di Pertini a presidente della Repubblica la prima parte dei volumi. In realtà un anno cruciale fu, per Pertini, il 1968, che lo vide eletto per la prima volta, all’inizio della V legislatura, alla presidenza della Camera dei Deputati e rappresentò con ciò il suo passaggio a quei ranghi di rilievo costituzionale che egli aveva sino ad allora rifiutato (era stato tuttavia vicepresidente della Camera e nella prima legislatura presidente del Gruppo dei senatori socialisti). Ma questa ripartizione della raccolta segue giustamente un filone politico e di partito ed è quindi giusta e coerente. Gli interventi di Pertini, pure attivo nel Partito, si fanno ognora più rievocativi e personali. Vi occupano posti di rilievo i ricordi della Resistenza e dell’insurrezione di Milano, le rivendicazioni dei sacrifici di compagni socialisti nelle lotte al sorgere del fascismo, altre polemiche con i comunisti, i ricordi di amici e compagni scomparsi. Alla partecipazione al secondo governo Moro (luglio 1964) nega il proprio voto e più d’una volta esprime apprensione per le possibili degenerazioni legate alla partecipazione dei socialisti più che al governo al sottogoverno. In politica estera sarà decisamente contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici, fatto avvenuto quando egli già era alla presidenza della Camera (in pieno agosto la stessa si convocò in una seduta straordinaria) e il 24 gennaio 1969 commemorerà dal seggio di presidente della Camera il sacrificio del giovane Jan Palach; ma non mancherà mai di ricordare i popoli oppressi da dittature in Occidente, come la vecchia Spagna di Franco, la Grecia dei colonnelli dall’aprile del 1967 e più tardi il Cile. Con passione Pertini partecipa anche alla campagna elettorale del 1972, in un momento interessante perché il partito è fuori del Governo, e difende il lavoro del Parlamento dopo i primi quattro anni di esperienza presidenziale. Partecipa ancora, pieno di carica giovanile, alla campagna elettorale del 1976, dopo una seconda legislatura trascorsa come presidente della Camera. Gli anni dal 1976 al 1978 (ritorno all’attività di partito, partecipazione silenziosa al Congresso di Torino del marzo-aprile 1978, assassinio di Moro) ci offrono scarse testimonianze scritte; ma – forse perché dominati come oggi siamo dalla conoscenza ed esperienza di ciò che avvenne – ci lasciano presentire il grande evento dell’8 luglio 1978: l’ascesa di Sandro Pertini, candidato di un Parlamento quasi unanime (832 voti su 995 votanti), alla presidenza della Repubblica italiana.

Come scrissi sull’Avanti! del 9 luglio 1978, per “noi giovani socialisti di un tempo l’elezione di Pertini a presidente della Repubblica fu come il coronamento di un sogno”. Noi sapevamo quanto umanamente e politicamente egli valesse, al di là di certe apparenze, di alcune concessioni politiche od ideologiche, o di certi bruschi contegni. Noi sapevamo come fosse stato veramente, in ogni senso, un eroe. Perciò non rimanemmo minimamente stupiti, quel giorno, del suo sobrio ed eccezionale discorso da presidente di tutti gli italiani né, nei mesi successivi, della rapidissima sua conquista di consenso e di simpatia in tutta la nazione. Nel secondo volume dell’opera, sotto il titolo “L’uomo e le istituzioni”, i Curatori della raccolta hanno preferito riunire tutti gli interventi “ufficiali” (anche se non solo quelli strettamente “protocollari”) di Sandro Pertini nelle tre alte cariche dello Stato successivamente ricoperte: vicepresidente della Camera dei Deputati (1964-1968), presidente della stessa per due intere legislature (1968-1976), presidente della Repubblica (1978-1985). Anche questo criterio mi sembra corretto, poiché gli interventi, pur rappresentando sotto certi aspetti un “crescendo” anche quanto a contenuti, sono necessariamente improntati ad uno stesso stile, diverso da quelli che fanno parte del primo volume, e rispondono a regole e limiti fra loro analoghi. Gli argomenti risentono anch’essi di una certa “ufficialità”: indirizzi, saluti, numerose storiche commemorazioni di parlamentari d’ogni partito che scompaiono in quegli anni, ricordi di eccidi e di altri fatti bellici, eventi di rilievo nazionale ed internazionale, lavoro e prestigio del Parlamento; e nel settennato ricordi di vita e di molteplici esperienze, ancora anniversari, visite in vari luoghi di Italia, viaggi ufficiali all’estero, altri incontri internazionali di alto rilievo, discorsi ai lavoratori, auguri e bilanci di fine d’anno, partecipazione alle ansie per i pericoli che corre il genere umano, messaggi di solidarietà, di coraggio, di pace. Le diligentissime note inquadrano ognuno di questi nelle sue sedi, nelle sue occasioni, nei suoi contesti specifici. Il lettore, noterà, ripercorrendo questi interventi del settennato, accanto alla schiettezza propria anche di quelli, pure ufficiali, del periodo precedente, una maggiore discorsività, un tornare su tempi e pensieri profondamente vissuti per rendere partecipi di essi i più vari interlocutori, un linguaggio che va veramente al cuore di chi ascolta, ricco di lealtà ed umanità. Rileggendoli si ha la misura, insieme, di una grande semplicità e di una estrema forza di persuasione e di comunicatività, oltre che di una eccezionale carica umana. Inoltre la memoria corre ai quotidiani colloqui del Presidente coni ragazzi delle scuole d’Italia, alle costanti sue presenze ai momenti festosi e a quelli infelici della nazione, agli onori da lui resi alle vittime del terrorismo e della criminalità, ai suoi incitamenti alla nuova resistenza e alla speranza, nonché a talune scelte difficili eppur rapide, responsabilmente assunte nella sfera delle sue competenze; ma soprattutto alla sua inesausta volontà di pace per il mondo. Di qui, oltre che dalla sua figura e dal suo passato, il generale successo di Pertini in patria e nei paesi ed ambienti più diversi.

Par quasi che la Presidenza della Repubblica e la rappresentatività che vi è connessa su una proiezione mondiale fossero il naturale sbocco dell’esperienza di Sandro Pertini. Il suo spirito di lottatore, qualche volta acre, mordace, talora eccessivo nel passato, si stempera e si manifesta ora in un linguaggio pacato e convincente, anche se carico di tensione ideale e di coraggio: basterebbe, a quest’ultimo proposito, pensare alla sua posizione inflessibile verso i terroristi. In non pochi incontri all’estero Pertini ricorda non solo i meriti dell’interlocutore o del paese in cui si trova, ma i meriti e le sofferenze altrui. Così tutto il suo discorso si ricompone in un insieme di umanità e di universalità.

Non crediamo di potere indugiare oltre, anche se molte di queste pagine, nel secondo volume non meno che nel primo, ci indurrebbero in tentazione: le rimembranze comuni di compagni scomparsi, per ognuno dei quali Pertini ha trovato nell’animo suo la parola appropriata, i ricordi della Resistenza, da lui cento volte commemorata e sempre tenuta desta nella mente e nel cuore, le tappe dell’ascesa dei lavoratori verso un sistema di vita più degno, il riscatto dalla miseria e dalle sofferenze perduranti in tante parti del mondo. Verrebbe anche fatto di parlare della sua vita, della sua valorosa partecipazione alla prima guerra mondiale come tenente dei mitraglieri sull’Isonzo e alla Bainsizza, delle prime sue attività clandestine in Liguria, della organizzazione dell’espatrio di Filippo Turati, delle altre sue imprese coraggiose degli anni venti, trenta e quaranta, della sua fierezza dinanzi al tribunale speciale, in carcere e al confino, del suo coraggio sereno di fronte alla morte incombente durante l’occupazione nazista: tutti fatti che si collegano strettamente agli “Scritti e discorsi” e senza dei quali questi ultimi avrebbero assai minor senso. Ma si tratta di rievocazioni in cui altri già si sono cimentati e che qui sarebbero fuor di luogo, anche per lo spazio che esigerebbero. Così sento di dovervi rinunciare.

Siano consentite solo due riflessioni.

La raccolta si chiude, ovviamente, con gli scritti e i discorsi del settennato presidenziale di Sandro Pertini, e non contiene pertanto documenti relativi ai quattro anni e mezzo che intercorsero fra lo spirare di quel periodo e la sua morte (24 febbraio 1990). Ma quel che è certo è che non mancò mai, neanche, in quel periodo, il suo dialogo con gli italiani. Non mancò nel Senato della Repubblica dove, fattovi ritorno (dopo il quinquennio 1948-1953) come senatore di diritto, ebbe accoglienze commoventi al rientro nell’aula ed ogni volta in cui si recava per quegli ambulacri o quegli uffici; non mancò in mezzo al popolo, dove ogni sua uscita era una festa d’amicizia e d’amore. Basterebbe ricordare la sua passeggiata vicino a casa il giorno del suo novantesimo compleanno e varie altre occasioni. Né mancò a lui, pur nel declinare inesorabile delle forze fisiche, la emozione di vedersi realizzare alcuno dei suoi sogni: fece in tempo nel vedere la caduta del muro di Berlino e certo ripensò a quel giorno in cui, deplorando l’assurda separazione, gli era venuto quel commovente paragone tra uomini divisi e gli uccellini che sorvolavano il muro da una parte all’altra senza conoscerne né l’esistenza né il significato.

Gli italiani, compresi coloro che con un esame di coscienza avrebbero dovuto ascriversi una qualche pur minima colpa, continuarono anche in quegli anni a vedere in lui una specie – come fu detto – di “presidente morale”, il simbolo di quella “Italia pulita”, che egli aveva sempre vagheggiato e per cui aveva operato. Così si può dire di lui che anche sotto questo profilo egli visse e vive al di là di questi scritti e discorsi. con la cui pubblicazione si è tuttavia inteso fargli onore. La seconda considerazione è che sfogliando questa raccolta non vi troviamo né monografie studiose né, comunque, uno svolgimento scientifico e programmatico del socialismo di Pertini, tuttavia esponente coerente di quell’idea dal primo all’ultimo giorno. Il tema sempre ricorrente è quello della necessità di comporre in modo indissolubile la giustizia sociale con la libertà. Non solo perché senza l’una non può esistere l’altra, ma perché la ipotetica realizzazione della prima – anche nella forma più completa – senza la seconda sarebbe priva di pregio e varrebbe meglio rinunciarvi. E’ un concetto ripetuto più volte, sia nei discorsi e scritti del primo volume, sia in quelli “ufficiali” del secondo. Ed è una linea maestra che, pur nei momenti di maggiore asprezza della lotta politica, Pertini non ha smarrito mai. Forse questa carenza, o meglio semplicità e schematicità di linee dottrinali, in colui che va considerato tra gli apostoli del socialismo in Italia, ha, nell’epoca presente, segnata come molti ritengono dal “tramonto delle ideologie”, minore e importanza di quanto avrebbe potuto apparire in altri tempi. Ma tramonto delle ideologie, se tale è, non significa tramonto degli ideali. Perciò Sandro Pertini rimane e rimarrà, vivo e compreso, nella memoria dei socialisti ed in quella di tutti gli italiani.

GIULIANO VASSALLI

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