Allocuzione alla Columbia University (31 marzo 1982)

SANDRO PERTINI

PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

DISCORSI (1978 – 1985)

ALLOCUZIONE ALLA COLUMBIA UNIVERSITY IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO DELLA LAUREA HONORIS CAUSA

(NEW YORK 31 marzo 1982)

 

Signor Presidente,

Signor Decano, Signor Professori, cari studenti della Columbia University ,

sono grato e fiero di essere da oggi un laureato della vostra università e di entrare così a far parte di questa grande comunità di studio e di vita accademica che affonda le sue radici ben dentro la storia americana e perciò stesso nella storia della civiltà dell’uomo.

L’animo mio è colmo di commozione anche perché ho l’intima improvvisa sensazione che il miracolo di Faust, sognato in mirabili versi dal maggiore poeta tedesco, si stia verificando per me in questo momento: per improvviso incantesimo mi sento giovane tra giovani, come quando frequentavo l’Università di Genova alla facoltà di giurisprudenza, poi l’Università di Firenze alla facoltà di Scienze Sociali e politiche e quindi l’Università della galera sotto il fascismo, perché operai e contadini che con fermezza avevano affrontato le due condanne del Tribunale speciale fascista, bramavano definire il carcere la loro università. Finalmente avrebbero potuto anch’essi studiare, coltivare la loro mente.

Così, allievo tra allievi e dinanzi al corpo accademico di questa illustre Università, prendo la parola per esprimere i sentimenti e i pensieri che in questo momento per me solenne ed esaltante fanno ressa nell’animo mio. Sarà la mia conversazione quasi lo svolgimento di una tesi di laurea “a posteriori”, alla quale vorrei dare questo tema: “La libertà e la legge “.

Le ragioni che vi hanno indotto ad accogliermi tra voi e che il Presidente ha illustrato con parole tanto efficaci quanto generose, mi hanno profondamente commosso e lo ringrazio di cuore come di cuore ringrazio voi tutti.

Quelle parole mi hanno fatto ripercorrere il senso e gli obiettivi dell’intera mia vita, altro merito non mi riconosco che non sia quello della coerenza e dell’aver sostenuto con fierezza e tenacia la lotta per la libertà.

Quando giovane come voi, amici studenti, mi trovavo rinchiuso nell’Ergastolo di Santo Stefano condannato dal Tribunale Speciale fascista per la mia ferma ostilità alla dittatura instaurata in Italia e giorno per giorno vedevo sfiorire la mia giovinezza e con essa i sogni più dolci che un giovane può tessere nel suo cuore, mai lo scoramento mi ha preso, bensì mi sentivo fiero ed orgoglioso di sopportare sacrifici e rinunzie per la fede politica che ardeva nel mio animo: la fede nella libertà. E trascorrevo le mie giornale solitarie serenamente, studiando come quando ero all’Università.

In questa Università che, con altre venerabili istituzioni, fu culla del pensiero politico dal quale scaturirono i fondamenti giuridici dell’ordinamento americano, non sarà ne improprio, ne eccessivo ricordare il contributo che l’antica Roma diede alla prima sperimentazione di tutti i princìpi e le modalità di governo che ruotano, com’è scritto nelle istituzioni di Gaio, intorno alla idea centrale che la lex “è ciò che il popolo comanda ed ha stabilito”. Mi e piaciuto ritrovare questa idea ed i suoi svolgimenti nelle meditazioni profonde ed appassionate di un grande pensatore americano contemporaneo quale è Charles Howard Mc Illwain. Egli mi ha ricordato che la chiara affermazione di Gaio, secondo la quale il populus è la fonte di tutta l’autorità legale “E’ della massima importanza, e non è senza significato il fatto che questo rimane principio centrale della Costituzione romana sino alla fine, persino dopo essere stato ridotto, dall’avvenuto sviluppo di un effettivo dispotismo ad una pura teoria delle origini”

Se questo è il fondamento democratico della legge, esso deve potersi adattare – come in effetti è accaduto – al mutare delle società, all’alternarsi in esse delle forze politiche, alle trasformazioni della vita associata, insomma al “cammino della storia”. A tal fine, come lo stesso Mc Illwain riconosce, i Romani costruirono il primo telaio del sistema di controlli e contrappesi, di checks and balances inserendo come elemento fondamentale di esso il confronto e la dinamica tra le classi sociali in modo che il processo politico non portasse ad una lotta selvaggia, ne ad una pietrificazione dell’ordine costituito, ma si svolgesse nel segno di una civilitas rispettosa delle idee e degli uomini.

E’ questo l’antico, importantissimo retaggio accolto ed elaborato nel sistema costituzionale americano, che oltre alle grandi enunci azioni sulle libertà contenute nella Dichiarazione dei diritti, conta su un meccanismo articolato di Governo e di Governi che costituiscono, nella loro molteplicità ed alternanza, la massima garanzia di quella libertà duramente proclamata e conquistata nella lotta rivoluzionaria del Vostro popolo.

Ma se il popolo intende essere veramente la fonte di tutta l’autorità, tre sono le condizioni che la storia ci ha dimostrato qualificare il regime democratico. Anzi’ tutto, come saggiamente ha precisato Alexander Hamilton, non devono essere create le situazioni dalle quali possano scaturire sia la tirannide della maggioranza sia quella di una minoranza: – perché egli scrisse – “se si dà tutto il potere ai molti, essi opprimeranno i meno, se si dà tutto il potere ai pochi, essi opprimeranno i più”. Da ciò discende la necessità che la democrazia si autolimiti, perché una democrazia senza quella autolimitazione che rappresenta il principio di legalità si autodistrugge. Questo sviluppo è stato lucidamente precisato da Giovanni Sartori quando scrive che il costituzionalismo costituisce la risoluzione del problema della libertà in correlazione alla risoluzione del problema della legalità.

I vostri Padri fondatori, collegandosi ad una grande tradizione di pensiero giuridico fiorita in Inghilterra, individuarono nel sindacato sulla costituzionalità delle leggi, nel Judical review, il limite al potere del Congresso ed indirettamente del Presidente degli Stati Uniti, operante in dipendenza di una Costituzione rigida e dunque di una legge superiore che deve essere osservata anche dal Parlamento, In Italia l’Assemblea Costituente nel 1947 si pronunciò nello stesso senso quando optò per un modello di costituzione rigida e per un sistema di sindacato sulla costituzionalità delle leggi, la cui funzione garantista fosse anche in grado di opporsi ad eventuali tentativi di maggioranze eversive e dispotiche o di minoranze violente. Anche noi, dunque, abbiamo ritenuto opportuno seguire l’insegnamento di Thomas Paine e cioè che una costituzione scritta è per la libertà quel che la grammatica è per la lingua.

La terza condizione è rappresentata dal significato di giustizia e di verità della legge. La tragica e sanguinosa lotta dell’uomo per il diritto, ossia il raggiungimento i della corrispondenza della giustizia con la legalità, ha visto completarsi negli ultimi due secoli il significato della condizione di libertà politica e di libertà sociale del cittadino e dunque il ricomporsi, negli stati veramente democratici, del conflitto tra società civile e Stato. Perché, ricordiamolo, le leggi giuste sono quelle, appunto, che liberano e non opprimono l’uomo.

Le leggi che liberano l’uomo da ogni servitù morale e materiale. Le leggi che consentono all’uomo di restare in piedi, padrone dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri e non servitore in ginocchio. Le leggi che rendono l’uomo indipendente non più schiavo del bisogno, perché chi è schiavo del bisogno sarà sempre schiavo di qualcuno e non sarà mai un vero uomo libero. Libertà e giustizia sociale costituiscono, a mio avviso, un binomio inscindibile; l’un termine deve presupporre l’altro. Non si avrà mai vera libertà senza giustizia sociale, come non si avrà mai vera giustizia sociale senza libertà.

Ma come ben osserva Boris Mirkine Guetzevitch il riconoscimento di questa globale condizione di libertà nella legge, apparentemente unanime in tutte le costituzioni contemporanee, cela in alcune, surrettiziamente, ben altre realtà sconcertanti: “Le costituzioni dei Paesi dove impera il neo-assolutismo”, egli scrive, “contengono le affermazioni più solenni, più formali, più perfettamente conformi alla filosofia politica dei diritti dell’uomo. E tuttavia il mondo sa che i cittadini di questi paesi subivano e subiscono un regime poliziesco di terrore quale l’assolutismo decadente della fine del secolo XVIII non avrebbe nemmeno potuto immaginare”.

Il mio pensiero si rivolge con sdegno ed amarezza a quei paesi nei quali in nome della dittatura di un partito, di una classe, di una asserita ed infondata primazia razziale, di un ‘ideologia spesso disumana, di criteri distintivi fondati sul censo e la fortuna, si nega la dignità dell’uomo raggiunta nel corso della sua multimillenaria esistenza a prezzo di indicibili sofferenze. Dobbiamo francamente riconoscere che non sono molte le nazioni del nostro pianeta nelle quali un umile possa tranquillamente rispondere all’arroganza del potente con la frase del celebre mugnaio tedesco “Vi sarà ben un giudice a Berlino!”.

Dunque nel mondo contemporaneo esistono purtroppo ancora molte situazioni nelle quali invece dell’imperio della legge predominano l’arbitrio, la violenza morale e materiale, la sopraffazione.

Rinnoviamo da questa libera Università, ove trionfa il libero pensiero, la nostra solidarietà al Popolo Polacco, oppresso dalla dittatura. Va la nostra solidarietà di ex partigiani ai partigiani afghani che si battono contro lo straniero invasore della loro patria.

Ma la libertà è indivisibile, non v’è “ragion di stato” che possa consentire discriminazioni in favore di altri regimi dittatoriali: quindi la nostra condanna va ai regimi dittatoriali dell’America Latina, dell’Africa Australe, della Turchia.

Nell’El Salvador orrendi crimini vengono consumati contro donne, bambini; creature indifese. In quel Paese non esiste la legge che protegge l’uomo da ogni ingiustizia ed arbitrio, ma la prepotenza e il sopruso di chi vuoI dominare con la forza delle armi.

Leviamo la nostra ferma protesta da questa libera Università: la libertà deve regnare nel mondo .sorretta dalla Iegge sicura e giusta.

La democrazia in cui crediamo e per la quale abbiamo tanto combattuto e continuiamo ancora a lottare non si identifica in una politica e tantomeno in un modello costituzionale, ma è il portato di una millenaria esperienza alla base della quale sono l’eguaglianza degli uomini ed il loro diritto innato alla ricerca della felicità.

Nei momenti più difficili della lotta contro il fascismo e il nazismo, quando facemmo uso del nostro diritto di resistenza estrema contro la legge ingiusta, consacrammo l’idea della subordinazione del diritto positivo alla coscienza secondo princìpi di ordine morale. Non perdemmo mai, anche nelle situazioni più disperate, la fiducia nella da della ragione per una felice soluzione dei problemi della convivenza politica perché eravamo consci, così come lo era Jefferson, che era cominciata nel mondo una insurrezione della scienza, del talento e del coraggio contro il rango sociale e la nascita, nonché contro il dogmatismo, la dittatura, l’intolleranza razziale, tutti i mostri che ciclicamente insidiano la piena realizzazione dell’esistenza umana.

Di questi valori consacrati per la prima volta nella Costituzione americana e poi accolti e riaffermati, attraverso la rivoluzione francese, nel costituzionalismo europeo e nelle Carte Costituzionali vigenti di tutte le nazioni democratiche, noi dobbiamo dare continua ed inflessibile testimonianza. Anzitutto dobbiamo difenderli all’interno di nostri ordinamenti, cercando, come ammonì Lincoln, di non violare mai nel minimo particolare le leggi del Paese e di non tollerare che queste medesime siano violate da altri: sentendoci, poi, partecipi delle sorti dell’umanità intera e, ! dunque, non assistendo passivamente ai gravissimi attentati ai diritti umani e alle libertà civili che vengono perpetrati, sotto un’apparente facciata di legalità, in varie, parti del mondo, offendendo la coscienza di tutti gli uomini liberi.

lo sono orgoglioso d’essere cittadino italiano, ma mi sento anche cittadino del mondo: così sono al fianco con fraterna solidarietà delle creature, che anche nel più remoto angolo della terra si battono per i loro diritti umani e civili, sono al fianco di chi si batte contro la fame; sono al fianco di chi soffre umiliazioni e oppressioni per il colore della sua pelle. Hitler e Mussolini avevano la pelle bianchissima, ma la coscienza nera.

Martin Luther King aveva la pelle color dell’ebano, ma il suo animo brillava di limpida luce come i diamanti che i negri oppressi estraggono dalle miniere del SudAfrica per la vanità e la ricchezza di una minoranza dalla pelle bianca.

Indubbiamente la democrazia rappresentativa non può costituire da sola lo strumento perfetto della convivenza civile, perché il processo decisionale di essa è lento e faticoso, comporta spesso problemi di governabilità, di stabilità delle istituzioni, di alternanza tra i partiti e gruppi politici, di avvicendamento di generazioni al governo di un paese.

Tuttavia essa è certamente la proiezione più fedele delle esigenze e delle aspirazioni di una società, la garanzia del rispetto delle minoranze, la possibilità di un dialogo tra le parti sociali, lo strumento di un pacifico sviluppo; in sintesi l’unico mezzo a disposizione del popolo per partecipare effettivamente alla direzione politica del proprio paese e per verificare che veramente la sovranità appartiene ad esso.

Per tutti questi motivi Aldo Moro, mio caro amico crudelmente ucciso, testimone e martire della libertà, presentando il suo primo governo al Parlamento italiano nel 1963, consapevole dei compiti che gravano sui governi democratici, sintetizzava la missione del potere democratico proponendo “un’azione tendente a dare più libertà a tutti i cittadini nello sviluppo della vita democratica: una libertà che esprima la partecipazione reale al potere di quanti in passato ne furono esclusi o rimasero ai margini della vita dello stato democratico; una libertà che non sia solo iniziativa e potere politico, ma coerentemente espressione generalizzata e concreta di dignità umana e di giusta partecipazione di tutti i cittadini ai beni della vita”.

Signor Presidente, Signor Decano, Signori Professori, cari Studenti della Columbia University, l’espressione “civiltà occidentale” sembra diventata ormai un luogo comune.

Sino a che punto siamo consapevoli che elemento qualificante ed unificatore di questa civiltà è proprio il culto della libertà, che si concretizza in ben definiti ordinamenti giuridici, in leggi che garantiscono diritti individuali e collettivi privati pubblici, in una parola in ciò che chiamiamo i nostri regimi democratici?

Ben pochi degli oltre centocinquanta stati che ormai formano la comunità internazionale possono vantarsi di un simile patrimonio ideale, del resto costantemente minacciato da forze esterne ed interne, sottoposto alle sfide di chi vagheggia altre alternative ai nostri modelli sociali e politici.

E’ soprattutto per difendere questo bene prezioso e raro da tante minacce, sfide e tentazioni che noi, americani ed europei, possiamo dirci veramente “alleati”. Bisogna rendersi conto che la nostra alleanza non è puramente militare, si fonda su qualcosa di più profondo degli interessi contingenti.

Sono giustificate, certo, le preoccupazioni dei nostri uomini politici per il ricorrente emergere di divergenze e incomprensioni in seno alla Comunità atlantica. Il mese scorso proprio qui, negli Stati Uniti, in una conferenza alla Università di Georgetown, il Ministro degli Esteri italiano Emilio Colombo ha ventilato l’idea di un nuovo “patto di amicizia euro-americano”, volto a migliorare la concertazione tra le due sponde dell’ Atlantico.

Ma ritengo che la diversità ed anche una discordanza di voci sia una delle forze della democrazia. E’ nel contrasto delle diverse idee ed opinioni che in buona sostanza sorge l’indicazione più giusta per chi intende restare sul terreno della democrazia e procedere verso quelle riforme e quei rinnovamenti che della democrazia costituiscono la vera sostanza.

Peraltro un vero democratico deve combattere ma anche rispettare il pensiero dell’avversario. Per quanto mi concerne, io sono sempre stato, in proposito, fedele all’insegnamento del grande pensatore francese Voltaire. Dico al mio avversario: “lo combatto la tua idea che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi sino, al prezzo della mia vita, perché tu la tua idea possa esprimere sempre liberamente”.

Ma è mia intima convinzione che proprio le contrapposizioni e a volte gli urti delle correnti di pensiero hanno contributo a far sì che l’idea di libertà nel mondo occidentale acquistasse contorni sempre più concreti. Americani ed Europei hanno , saputo attingere gli uni dagli altri le migliori risorse del proprio spirito, unendo l’entusiasmo per il nuovo al rispetto della tradizione, per far progredire l’emancipazione dell’individuo in una cornice di giustizia sociale, ove alla semplice libertà di espressione si unissero la libertà dalla paura e la libertà dal bisogno.

Occorre moltiplicare a tutti i livelli le forme di contatto reciproco, per trarre il meglio dalle nostre comuni tradizioni e anche dalle nostre diversità. Occorre unire tutte le nostre risorse spirituali e materiali per l’ulteriore sviluppo di tutte le potenzialità di un idea di libertà intimamente unita al rispetto del diritto, quindi in, definitiva, per il processo e la pace di tutta l’umanità.

Occorre, insomma, conoscerci meglio: Wolfango Goethe in una sua mirabile poesia narra la vicenda di due viandanti che in una notte senza stelle vanno fianco a fianco e ognuno nasconde sotto l’ampio mantello una lucerna accesa, sicché l’uno avverte la presenza dell’altro non dallo splendore della fiamma, ma dall’acre odore del fumo.

Così accade nella vita per i singoli e per i popoli: gli uni avvertono la presenza degli altri solo attraverso il fumo acre delle polemiche e dei contrasti.

Se invece l’uno aprisse il suo animo all’altro tutti constaterebbero che hanno le stesse esigenze e quindi le stesse aspirazioni: non estranei l’uno all’altro si sentirebbero o peggio nemici, ma legati tutti allo stesso destino.

Tutti i popoli della terra affratellati operino insieme per rendere la vita degna di essere vissuta. Esaltino la loro dignità nella esaltazione della libertà e della pace.

Noi ormai siamo al termine della nostra giornata e con l’animo di chi sa di aver compiuto sempre il proprio dovere di uomo libero, ci avviamo sereni verso la notte che non conoscerà più albe.

Ma voi, giovani, avete tutta una vita da vivere e il vostro domani ci sta a cuore: per questo domani abbiamo lottato tutta la nostra esistenza e lotteremo finche vita sarà in noi.

In questa lotta non potete lasciarci soli, ma dovete restare al nostro fianco e battervi con noi perché il vostro domani sia un domani di libertà, di giustizia, di pace.

E se non volete che le vostre giornate scorrano grigie e monotone, date una nobile ragione alla vostra esistenza.

Scegliete voi liberamente, come liberamente scegliemmo noi nella nostra adolescenza. Fate la vostra scelta purché essa presupponga il principio di libertà, se non volete incamminarvi su una strada che vi porterebbe a sicura rovina.

Sia, dunque, nobile la vostra scelta ed allora la vostra esistenza si svolgerà in modo esaltante nella buona e nella cattiva sorte.

E noi finché vita ci animerà, staremo al vostro fianco a lottare con voi, ad aiutarvi a rimuovere gli ostacoli che sono sul vostro cammino, perché voi lo possiate percorrere con passo sicuro e spedito.

Difendete la libertà, costi quel che costi.

Ma ogni conquista democratica e sociale diverrebbe vana, se una nuova guerra dovesse esplodere.

Nel mio recente viaggio in Giappone sono andato a raccogliermi ad Hiroshima, la città che ha conosciuto il primo olocausto nucleare. Un’angoscia profonda mi ha preso: ho pensato con orrore alla straziante fine di migliaia di innocenti creature, ho pensato che questa stessa atroce fine conoscerebbe l’intera umanità, se una nuova guerra dovesse esplodere.

Talvolta ho l’impressione che chi detiene nelle proprie mani il destino dei popoli stia indifferente discutendo sul cratere di un vulcano, che nelle sue viscere va preparando una eruzione nucleare che segnerebbe la fine dell’umanità.

Tutti i Capi di Stato dovrebbero recarsi in pellegrinaggio ad Hiroshima: il loro animo verrebbe preso da un profondo orrore e da un severo ammonimento. Ad Hiroshima nel mio animo sconvolto ho sentito risuonare – come sento risuonare in questo momento -l’appassionata esortazione di un grande poeta della mia terra italica: “…vò gridando: pace, pace, pace!”.

E pace sia sempre per l’intera umanità.

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