Al Re di Giordania (Amman 26 novembre 1983)

AL RE DI GIORDANIA

(AMMAN 26 novembre 1983)

 

Maestà,

sono lieto ed onorato di trovarmi per la prima volta in questa bellissima terra. La lotta tenace della Dinastia Hascemita nell’arco di oltre un sessantennio per il risorgimento e l’emancipazione del Paese e per la causa dell’unità della grande famiglia dei popoli arabi rivive oggi nello slancio di un popolo operoso che, sotto la Sua guida, ha raggiunto importanti traguardi di avanzamento economico e sociale. L’Italia ha seguito con simpatia in questi anni il grande sforzo dalla Giordania realizzato per accelerare il suo sviluppo, in un periodo per di più coincidente con le guerre combattute in questa regione, che hanno imposto al Paese gravi rinunce, pesanti sacrifici e forti perdite in vite umane.

Noi apprezziamo la linea seguita dalla Giordania durante i conflitti più recenti, nella quale sono state presenti insieme determinazione e moderazione.

Grazie anche all’alto prestigio di cui Ella gode entro ed oltre i limiti dell’intero mondo arabo, il Suo Paese è oggi un elemento di equilibrio e stabilità nella regione ed è divenuto uno dei protagonisti del coraggioso e difficile dialogo volto a ricondurre la pace in queste terre.

Maestà, per me è anche motivo di viva soddisfazione il poter constatare una volta di più il clima di profonda amicizia e collaborazione che caratterizza ed anima i tradizionali rapporti tra i nostri due Paesi.

Desidero confermarLe che annettiamo una speciale importanza alle nostre relazioni bilaterali, consolidate da vincoli storici, da tradizioni culturali e da affinità umane e spirituali.

Dovunque, nei Paesi mediterranei, coltiviamo un albero – l’ulivo – che è il simbolo della pace. In Giordania come in Italia questa pianta è addirittura un elemento caratteristico del paesaggio. Ma l’ulivo attecchisce sulla terra con maggior facilità che la pace nel cuore degli uomini. Questa regione del Levante è da anni pervasa da una febbre di violenza che a tratti esplode in sussulti di guerra, con strascichi di lutti e rovine. La realtà ha dimostrato che il grave ed irrisolto cumulo di problemi, trasmesso attraverso i decenni, sino ad oggi, non può trovare costruttiva soluzione in un clima di scontro.

E’ mia convinzione che il conflitto che agita questa regione nevralgica non potrà trovare componimento se non nel colloquio ed attraverso un negoziato cui tutti gli interessati partecipino e con animo aperto alla conciliazione. V’è un imprescindibile, fondamentale diritto alla sicurezza di tutti gli Stati: nessuno deve sentirsi non tollerato. Ma v’è, inoltre, il diritto ad una Patria, per chi ancora di questa non dispone, per chi da questa è stato estromesso ed e costretto a tenerla racchiusa nel ricordo e nel cuore, per chi è costretto a viverci senza pienezza di diritti, primo fra tutti quello di determinare in libertà il proprio futuro. Queste sono posizioni politiche che l’Italia sostiene con determinazione, sia di per sé che nella sua qualità di attivo membro di quella cooperazione politica fra i Dieci della Comunità Europea da cui è scaturita la Dichiarazione di Venezia. Una posizione politica avanzata che rimane valida per noi con i successivi aggiornamenti apportati.

Maestà,

l’opera della quale i nostri Paesi sono entrambi partecipi, ciascuno nel quadro delle proprie responsabilità, è quella di contribuire a riportare la pace nelle terre del Levante.

I tragici avvenimenti del Libano hanno spinto l’Italia ad impegnarsi allo scopo di restituire indipendenza, sovranità e concordia nazionale a quel travagliato Paese che ha conosciuto una invasione spietata. Il massacro di vittime innocenti consumato con freddo cinismo a Sabra e Chatila resta quale ricordo di pietà e di orrore incancellabile nel nostro animo e peserà sempre come una maledizione su chi quel massacro orrendo ha voluto che fosse consumato.

Profondamente diverso è il nostro modo di sentire e di agire.

Così il popolo libanese ha ben compreso lo spirito da cui è animata la nostra missione. Il nostro contingente militare nel Libano è un contingente di pace; non permetteremo mai che sia trasformato in un contingente di guerra.

Sono stato di recente, Maestà, in quella tormentata terra ed ho potuto constatare quanto i nostri soldati siano amati, amati per la loro umanità, sempre pronti ad andare incontro alla popolazione del posto con generosa attenzione. Mascotte del contingente comandato dal bravo e intelligente Generale Angioni è un ragazzino libanese di otto anni che ha imparato la lingua italiana. Ha fatto subito amicizia con me e sempre al mio fianco, la sua mano nella mia mano. abbiamo insieme visitato l’accampamento italiano e Beiruth, un tempo splendida città. oggi spettrale con le sue rovine causate dai crudeli bombardamenti.

Quel bambino innocente, che si è sentito subito mio amico. è l’espressione vivente dell’affettuosa simpatia del popolo libanese per i soldati italiani.

Ripeto, Maestà, noi siamo andati nel Libano quali portatori di pace. I nostri soldati e noi con loro respingiamo la legge tribale: legge barbara in base alla quale tutta una tribù deve essere sterminata da chi ha subìto un atto di violenza da parte di membri della tribù stessa.

Portatori di pace nel Libano, intendiamo lavorare solo per la pace.

Nel settembre dello scorso anno, importanti iniziative per una soluzione negoziale dei problemi del Medio Oriente emersero, prima con le proposte del Presidente Reagan e poi con la Dichiarazione del Vertice di Fez. Entrambe queste iniziative hanno indicato una prospettiva politica che, al di là delle differenze di approccio e delle difficoltà insorte da allora, a noi appare ancora valida.

Per essere vera, sicura e feconda, la pace deve basarsi sulla giustizia. Deve essere posto termine all’occupazione di terre altrui. Devono essere risolti i problemi cui è legata la stabilità dell’assetto di pace che tutti vogliono sia dato al Levante. In primo luogo, il problema del popolo palestinese. Questo popolo, che anche nelle ultime settimane ha pagato un pesante tributo di sofferenze, deve essere messo in grado di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione. Il popolo di Israele.. per il quale l’Italia ha sentimenti di amicizia, dopo secoli di persecuzioni, ha avuto una terra ed una Patria.

Oggi, una terra ed una Patria spettano anche al popolo palestinese.

Ma se i palestinesi vogliono che la loro speranza diventi una realtà, debbono prima di tutto ristabilire la loro unità interna. I loro contrasti, le loro rivalità personali, sono le nemiche prime della loro indipendenza. Non avranno mai una loro Patria, se resteranno disuniti e si combatteranno tra di loro. Cessino le loro interne rivalità, si presentino uniti dinanzi al mondo libero e vedranno finalmente realizzato il loro sogno.

Non possiamo non auspicare, inoltre, che a suggello e coronamento di un nuovo, equo e stabile assetto territoriale del Levante, Gerusalemme – che le tre grandi religioni monoteiste concordano nel venerare – divenga una ragione di unione e non di divisione tra i popoli e torni ad essere quella che era, cioè luogo d’incontro e città della pace.

Altre tensioni, oltre a quella riguardante il popolo palestinese, affliggono questa regione.

Ho già parlato del Libano, ma anche se volgiamo lo sguardo alla zona del golfo, assistiamo con apprensione al drammatico protrarsi di un altro conflitto, quello tra Iraq ed Iran, che ha comportato un altissimo costo politico, materiale ed umano per entrambi i Paesi e che rimane gravido di incognite e pericoli. Il nostro auspicio è che anche questo conflitto possa al più presto trovare una soluzione negoziale.

Maestà,

l’Italia lavora, e non da oggi, per l’affermazione della pace, della concordia, della giustizia. Questi obbiettivi – è amaro constatarlo – debbono ancora realizzarsi nel Medio Oriente. A volte sembrano allontanarsi. Tuttavia io porto in me, più che la speranza, la ferma convinzione che da questa terra araba, dalla saggezza profonda di questi popoli che diedero un contributo essenziale al progresso dell’umanità, scaturirà irresistibile la parola della pace e vincerà ogni resistenza sorda e cieca. In questa parte del mondo iniziò la scrittura: gli uomini eressero i primi templi; qui nacquero i numeri; qui furono apprese le prime tecniche per la coltivazione dei campi; qui l’uomo s’interrogò per la prima volta sul suo destino. Qui sarà, ancora una volta, capace di forgiarlo con le sue mani, dovesse pur costargli sudore e fatica. L’ulivo è pianta annosa. S’abbarbica al suolo, non svetta rapida in cielo. Lenta è la sua crescita. Ma a chi persevera finisce per elargire i suoi frutti. Io spero che sia giunto il momento del raccolto anche per chi, in queste terre, ha atteso ed operato per la pace; e che la luce della pace torni a risplendere come quella del sole che da queste terre muove incontro a noi ogni mattino. E’ questo l’augurio che oggi, a nome dell’Italia, io formulo per la Giordania con tutto il mio cuore; e nell’esprimerlo aggiungo i miei voti più fervidi per il successo dell’alta missione che Ella, Maestà, svolge nell’interesse del Suo popolo, della pace e per il rafforzamento dei vincoli di amicizia e cooperazione tra i nostri due Paesi.

Sicuro, Maestà, dobbiamo lavorare per la pace. Se per dannata ipotesi dovesse esplodere la terza guerra mondiale, sarebbe l’ultima guerra, perché sarebbe la fine dell’umanità.

Se tutti i popoli della terra potessero coralmente esprimere la loro volontà. tutti si esprimerebbero per la pace, perché tutti si sentirebbero fratelli,. legati alla stessa sorte: o collaborare assieme per vivere degnamente, o tutti perire nell`olocausto nucleare.

Tutte le mattine, Maestà, ricevo al Quirinale scolaresche di ogni parte d’Italia, circa seicento ogni giorno. In questi cinque anni e mezzo di mia presidenza ne ho già ricevuti centosettantamila. Non faccio loro alcun discorso, ma li esorto a farmi domande, a pormi quesiti: così intreccio con questi adolescenti un dialogo. Orbene, la domanda che mi sento insistentemente ripetere è questa: “Il nostro domani sarà turbato dalla guerra?”.

Questa è la preoccupazione della gioventù non solo del mio Paese, ma del mondo intero. E la risposta che noi dobbiamo dare è quella di distruggere le armi nucleari. Bisogna arrivare al disarmo totale e controllato, se vogliamo che i nostri giovani, che l’umanità intera, conosca un domani di sicura pace. Se vogliamo che la vita prevalga sulla morte, sulla orrenda morte nucleare.

Lo so che affermando questo posso essere definito un utopista.

Ma quante utopie di ieri sono divenute realtà oggi.

Comunque, noncurante delle critiche, io, finché vita sarà in me, per la pace e quindi per la distruzione delle armi nucleari mi batterò.

E i miliardi, che si sperperano per costruire armi che se usate rappresenterebbero la fine dell’umanità, si usino per combattere la fame nel mondo. Mentre io parlo, milioni di innocenti creature muoiono per mancanza di cibo.

La morte di queste innocenti creature pesa sulla coscienza di ogni uomo di Stato e quindi anche sulla mia coscienza.

Con questo spirito levo il calice alla salute di Vostra Maestà e della Sua augusta consorte ed alla prosperità dell’amico popolo giordano.

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